Meditare sul mattino di Pasqua significa portare nel cuore
il brano del Vangelo di Giovanni su Maria di Magdala, sull’incontro misterioso
con il Risorto nella sua prima apparizione, sull’annuncio che ne seguirà. Far
riverberare persino i suoni delle sacre parole nelle orecchie potrà costituire
una chiave per aprire gli scrigni riposti nei testi delle poesie che seguono.
Quando si incontra la Resurrezione, non si
può non pensare a ciò da cui ha origine e di cui è il compimento: la Creazione. È per questo
che come sinonimo si usa spesso quello di Nuova Creazione. Nell’uomo creato da
Dio, opera perfetta come perfetto è il Creatore, si è misteriosamente introdotto
qualcosa che ne ha perturbato l’ordine, l’armonia e così, da una pienezza di
relazione, la vita si è trasformata in una continua mancanza, in un sofferto
limite, in una pesante fragilità da portare. Pasolini esprimeva così questo
senso di solitudine, all’interno di una sua visione “laica” della creazione:
Acque, cieli e terre
si meravigliano
fuori della morta mente
dell’uomo nato per ultimo.
Il poeta immagina l’uomo sotto le spoglie della sola
ragione, e arriva a definirla morta. Tralasciando
la forzatura di un Dio vivo che creerebbe una entità morta, possiamo però
tranquillamente accogliere la provocazione, perché di questo in fondo si
tratta, di pensare morta una ragione
non ancora incarnata. È una riflessione molto interessante, perché sembra voler
invitare ad un pensare che sia un tutt’uno con l’esistere, con la vita, con il
creato circostante. Non ancora rassegnato, il poeta continua:
“Io” gridava “Io”
legato a quel pensiero.
“Io” gemeva “Io”
chiuso in quella dura scorza.
I versi ci svelano quindi un “io” legato a quel pensiero.
Ma un “io” che chiude in una dura scorza l’essenza dell’uomo, lasciandolo
gemere, gridare disperato. Potremmo pensare all’“io” cartesiano, a questa
invenzione della modernità che certamente ha dato luogo a tanti errori
filosofici, ma soprattutto ha generato un soggettivismo ed un relativismo i cui
effetti risentiamo ai giorni nostri. Se così fosse, il grido e il gemito di
quest’uomo si ergerebbero a simbolo dell’umanità degli ultimi secoli che giace
sofferente in attesa di un Liberatore che possa farlo uscire dalla prigione
dell’“io”, per restituirlo a quell’essere relazionale nel quale è stato
originariamente concepito. Difatti:
Eravamo tutti morti,
senza un affetto nel cuore
e non un canto nelle orecchie,
poveri morti sconfortati.
“Io” gridavamo “Io”
nel buio di quella parola
senza suono, senza canto
“Io” gemevamo “Io”.
Ma ecco che interviene, nell’immaginario del poeta, Dio
con la sua potenza di parola, che è al contempo amore che si china sulla sua
amata creatura:
DIO DICE
“Carne” mormora Dio.
L’uomo cade nel corpo.
Vede la carne, la sente,
tocca la carne calda.
Quel pensiero comincia finalmente a rivestirsi di una
carne capace di restituirgli sostanza, sensibilità, calore. E riprende:
LE PAROLE
“Terra” mormora Dio.
Subito nasce la terra
e sostiene l’uomo disteso,
silenziosa, sul suo seno.
A UNA A UNA
“Cielo” e la pioggia e i raggi
gli nascono dagli occhi,
illuminando un’altezza
angosciata e silente.
Adesso l’uomo può disporre di una terra che lo sostiene,
ove può persino trovare riposo sul suo seno silenzioso. È una immagine molto
efficace che ci restituisce il legame ancestrale dell’uomo con tutta la
creazione. Tale legame è così profondo, che pioggia e raggi nascono persino
dagli occhi dell’uomo, in risposta, in realtà, ad un’angoscia provocata dalla
silente altezza del cielo che lo sovrasta. Qui è possibile rilevare tutta
l’angoscia dell’uomo contemporaneo dinanzi al problema di Dio: anziché scorgere
in pioggia e raggi un riflesso della bellezza divina, li vede come proprie
produzioni per coprire la distanza incolmabile, la differenza irriducibile con
il suo Creatore. Sarà perché forse gli riesce difficile accettare una
dipendenza assoluta da un Qualcuno infinitamente più grande di lui?
E L’UOMO VIVE
“Erba”
e trema verde
sulle prode, sui cigli.
“Uccello” e vola e canta
una piccola piuma d’oro.
(P.P.
PASOLINI, Li peraulis o La creatiòn, da Poesie disperse, 1946)
In questi versi finali, il poeta sembra approdare comunque
ad una significativa consapevolezza: l’uomo, al soffio di Dio, vive in armonia
con la natura circostante, sino a tremare con l’erba, a volare e cantare come
un uccello. C’è però qualcosa che risalta: il verso finale svela un soggetto
diverso da quello che era l’uomo fino a poco prima. Dov’è finito l’uomo? E cosa
rappresenta questa piccola piuma d’oro?
E se, forse, l’uomo si sia in realtà trasformato in essa? Questa ipotesi non
sembra poi così inverosimile; in fondo, a pensarci, la vulnerabilità della creatura
umana può benissimo essere simboleggiata da una piccola piuma, ma la sua
preziosità, diremmo anche divinità, è certamente quella coperta d’oro con cui
Dio ha voluto cingerlo sin dall’eternità. Si tratta, per l’uomo, di prenderne
consapevolezza (non a caso, il poeta ha creato una sorta di acrostico: si
leggano le parole in maiuscolo a capo delle ultime quartine e si coglierà un
ulteriore senso della narrazione poetica). Ed è così che ci inoltriamo nel
cuore del mistero della Resurrezione. Un mistero che inizia con un’attesa (eco
di Maria di Magdala al sepolcro):
Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
(P.P.
PASOLINI, Il pianto della scavatrice,
da Le ceneri di Gramsci, 1957)
L’attesa può infatti essere caratterizzata da una stasi,
da un pessimismo diffuso, da un atteggiamento rinunciatario. A volte ci si
ancora troppo ai ricordi, si rimpiange un tempo d’oro non più tornato, eppure
siamo sempre noi, vivi sull’onda del tempo presente. Ancora una volta, Pasolini
ci invita calorosamente a non arrestarci nel cammino, davanti all’angoscia che
prende per un amore che non si vive più.
L’anima non cresce più
Ed è terribilmente vero! Quanto più dovremmo, invece,
puntare sulla conoscenza e sull’amore nel presente, l’unico tempo che ci è dato
di vivere… L’attesa, seppur dolorosa per le ferite del passato, potrebbe anche
tramutarsi in preghiera:
Perdimi, Signore, ché non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sì che cangi la pena in moto aperto:
curva minore
del vivere m’avanza.
In tal modo, consapevole della impossibilità dell’uomo di
mutare certi pesi in gioie, Quasimodo si accosta a Dio perché
cangi la pena in
moto aperto
meravigliosa espressione che ci restituisce
quell’insopprimibile desiderio dentro il cuore umano che anela alle più alte
forme di vita, nonostante avanzi un tratto di vita forse discendente, comunque
umiliante:
E fammi vento che naviga felice,
o seme d’orzo o lebbra
che sé esprima in pieno divenire.
E sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.
Ci si
sente inondati di meraviglia in questa poesia/preghiera a Dio, perché
sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.
Si presagisce come la pienezza è nell’amore verso Dio, ma
è un amore difficile. Allora il poeta chiede, a Colui che sembra essere
l’oggetto del suo amore e che si rivela esserne il soggetto, di rendergli
facile questo amore sia nell’erba che tende con le sue cime alla luce, sia
nella piaga che buca la carne. Quanto
realismo in questi esili e intensissimi versi! L’uomo è fatto così: di slanci
altissimi e di terribili cadute, e può cucire entrambi e ritrovare senso
soltanto attraverso l’amore di Dio.
I versi che seguono continuano questo cammino di ascesi in
modo memorabile:
Io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.
Ancora mi lasci: son solo
nell’ombra che in sera si spande,
né valico s’apre al dolce
sfociare del sangue.
(S.
QUASIMODO, Curva minore, da Acque e terre, 1920-1929)
Forse meriterebbero soltanto silenzio, versi come questi,
rarissimi nella poesia contemporanea. Qui il confine con la mistica è davvero
labile. Si ode la grande fatica dell’uomo, identificatosi con tutta l’umanità,
nella vacillante ricerca di risposte ultime e appaganti, ovvero di Dio. Un Dio
che si percepisce come Qualcuno che ancora una volta si allontana, come nelle
“notti” dei grandi mistici di ogni latitudine, lasciando completamente soli
nell’ombra del giorno che di sera si fa ancor più cupa, mentre il sangue del
proprio dolore, reso dolce da questa attesa colma di preghiera, non riesce
ancora a trovare il giusto valico ove sfociare, come ad esprimere l’anelito
formidabile di chi non si è ancora arreso a trovare un senso a tante lacrime di
sacrificio.
Dopo tanto peregrinare, tra grida, angosce, attese di
pianto, ecco però una visione purificata, quella di una nuova vita, annunciata
dall’intramontabile Giovanni Pascoli:
[…] Ti vidi, o giorno
che su l’infinita
via delle nebulose ultime e sole
appari.
M’apparisti, o vita
che
splendi quando è morto il sole.
Un alito era, solo, per il miro
gurge, di luce: un alito disperso
da
un solo tacito respiro
e
che velava l’universo:
come se fosse, là, per un istante,
immobile sul sonno e su l’oblio
di
tutti, nella sua raggiante
incomprensibilità,
Dio!
(G. PASCOLI, L’aurora boreale, da Odi e Inni, 1907)
Non ci soffermiamo sui versi, il cui significato appare chiaro,
tuttavia fissiamo l’attenzione sulle ultime parole: come fosse là, per un istante, immobile… nella sua raggiante
incomprensibilità, Dio. Ci portano sul grande baratro del mattino di
Pasqua, quando misteriosamente, in un alito disperso, in un solo tacito
respiro, nel quale racchiudiamo il palpito del mondo, riusciamo a cogliere con
l’intuizione la raggiante incomprensibilità di Dio! Davvero è l’inizio di una
nuova vita di fede…
Tu verrai e libererai nella luce
queste finestre sbarrate di luce,
ed io, polvere, ritornerò nella luce.
Ti chiamerò: - Chi come Dio?
E mi farai vedere un fiume
delle mie canzoni perdute.
Ora, mi dirai, non devi temere più:
Israele è il tuo cuore,
tutte le creature sono risorte.
Aprono le braccia colme di luce.
(ELIO FIORE, The Lord of Souls, da In purissimo azzurro, 1985)