venerdì 30 marzo 2012

Conclusione


Al termine di questo percorso, compiuto in compagnia di numerosi poeti e soprattutto delle loro più recondite ricerche ed aspirazioni, che certamente ci hanno arricchiti di un’esperienza umana trasfigurata dalla Luce, vogliamo riportare e commentare la poesia di uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, del quale si stanno finalmente in questi ultimi anni moltiplicando gli studi, e verso il quale invitiamo i lettori a portare parecchia attenzione. Si tratta di Clemente Rebora, il cui itinerario di vita esprime ancor più chiaramente ciò che attraverso i versi ha inteso esprimere e rivelare:

         Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
         nell’arcana sorte
         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!
         Pur da una Madre sola, che è divina,
         alla luce si vien felicemente:
         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.
                        (CLEMENTE REBORA, Poesia e santità, da Poesie (1913-1957))

Prima chiara consapevolezza: il creato non segue una linea cieca o casuale, né un cammino di progressivo deterioramento, bensì un’ascesi in Cristo al Padre. Ora, come spiegare ad occhi poco avvezzi alla contemplazione il senso di un’ascesi che coinvolge il creato intero? Significherebbe ammettere che segue un disegno provvidenziale, che è stato già pensato da un Altro, che non è in nostro dominio, ma che è indissolubilmente legato a noi umani secondo un’arcana sorte. Ciò contrasta molto con una certa mentalità diffusa oggi. Poi

         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!

Torniamo nuovamente a quel realismo che abbiamo avuto modo di scoprire in altri autori. Lo ribadiamo: per vivere in pienezza, si deve accogliere l’aspetto più tragico della vita stessa, quel lento morire che portiamo addosso e dal quale tentiamo in ogni modo fuggire. Eppure, si tratta di un moto finalizzato ad una vita più grande: tutto è doglia del parto, cioè, quanto morir perché la vita nasca! Non è mai un soffrire vano, mai un’attesa senza approdo: tende l’esistenza ad un compimento per giungere al quale occorre però morire. È una legge ineludibile ed alla quale dobbiamo necessariamente adeguarci, pena una morte prematura e certamente più sofferta… E per morire, non abbiamo altro da fare che stringerci a Cristo, perché solo in Lui ascendiamo al Padre. Soltanto nell’accoglienza di quella forza e di quell’amore che si sprigionano dal suo volontario soffrire per noi, ritroviamo il senso delle cose che appaiono cadere, perire, sparire, come anche la risposta ai dolori più inspiegabili, sordi, solitari. Nella sua obbedienza alla volontà del Padre, occorre unire la nostra, nel coraggio di saperci figli amati da Dio:

         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.

I poeti ci hanno mostrato come è possibile trasformare il pianto amoroso della vita in anelito poetico, eppure questo non basta, è soltanto una tappa. Ci hanno, in realtà, indicato come il canto della vita si compie pienamente soltanto con e nell’amore del Signore.
Buona Pasqua a tutti!

IN RESURRECTIONE DOMINI - Pasqua di Resurrezione


Meditare sul mattino di Pasqua significa portare nel cuore il brano del Vangelo di Giovanni su Maria di Magdala, sull’incontro misterioso con il Risorto nella sua prima apparizione, sull’annuncio che ne seguirà. Far riverberare persino i suoni delle sacre parole nelle orecchie potrà costituire una chiave per aprire gli scrigni riposti nei testi delle poesie che seguono.
Quando si incontra la Resurrezione, non si può non pensare a ciò da cui ha origine e di cui è il compimento: la Creazione. È per questo che come sinonimo si usa spesso quello di Nuova Creazione. Nell’uomo creato da Dio, opera perfetta come perfetto è il Creatore, si è misteriosamente introdotto qualcosa che ne ha perturbato l’ordine, l’armonia e così, da una pienezza di relazione, la vita si è trasformata in una continua mancanza, in un sofferto limite, in una pesante fragilità da portare. Pasolini esprimeva così questo senso di solitudine, all’interno di una sua visione “laica” della creazione:

         Acque, cieli e terre
         si meravigliano
         fuori della morta mente
         dell’uomo nato per ultimo.

Il poeta immagina l’uomo sotto le spoglie della sola ragione, e arriva a definirla morta. Tralasciando la forzatura di un Dio vivo che creerebbe una entità morta, possiamo però tranquillamente accogliere la provocazione, perché di questo in fondo si tratta, di pensare morta una ragione non ancora incarnata. È una riflessione molto interessante, perché sembra voler invitare ad un pensare che sia un tutt’uno con l’esistere, con la vita, con il creato circostante. Non ancora rassegnato, il poeta continua:

         “Io” gridava “Io”
         legato a quel pensiero.
         “Io” gemeva “Io”
         chiuso in quella dura scorza.

I versi ci svelano quindi un “io” legato a quel pensiero. Ma un “io” che chiude in una dura scorza l’essenza dell’uomo, lasciandolo gemere, gridare disperato. Potremmo pensare all’“io” cartesiano, a questa invenzione della modernità che certamente ha dato luogo a tanti errori filosofici, ma soprattutto ha generato un soggettivismo ed un relativismo i cui effetti risentiamo ai giorni nostri. Se così fosse, il grido e il gemito di quest’uomo si ergerebbero a simbolo dell’umanità degli ultimi secoli che giace sofferente in attesa di un Liberatore che possa farlo uscire dalla prigione dell’“io”, per restituirlo a quell’essere relazionale nel quale è stato originariamente concepito. Difatti:

         Eravamo tutti morti,
         senza un affetto nel cuore
         e non un canto nelle orecchie,
         poveri morti sconfortati.

         “Io” gridavamo “Io”
         nel buio di quella parola
         senza suono, senza canto
         “Io” gemevamo “Io”.

Ma ecco che interviene, nell’immaginario del poeta, Dio con la sua potenza di parola, che è al contempo amore che si china sulla sua amata creatura:

         DIO DICE
         “Carne” mormora Dio.
         L’uomo cade nel corpo.
         Vede la carne, la sente,
         tocca la carne calda.

Quel pensiero comincia finalmente a rivestirsi di una carne capace di restituirgli sostanza, sensibilità, calore. E riprende:

         LE PAROLE
         “Terra” mormora Dio.
         Subito nasce la terra
         e sostiene l’uomo disteso,
         silenziosa, sul suo seno.

         A UNA A UNA
         “Cielo” e la pioggia e i raggi
         gli nascono dagli occhi,
         illuminando un’altezza
         angosciata e silente.

Adesso l’uomo può disporre di una terra che lo sostiene, ove può persino trovare riposo sul suo seno silenzioso. È una immagine molto efficace che ci restituisce il legame ancestrale dell’uomo con tutta la creazione. Tale legame è così profondo, che pioggia e raggi nascono persino dagli occhi dell’uomo, in risposta, in realtà, ad un’angoscia provocata dalla silente altezza del cielo che lo sovrasta. Qui è possibile rilevare tutta l’angoscia dell’uomo contemporaneo dinanzi al problema di Dio: anziché scorgere in pioggia e raggi un riflesso della bellezza divina, li vede come proprie produzioni per coprire la distanza incolmabile, la differenza irriducibile con il suo Creatore. Sarà perché forse gli riesce difficile accettare una dipendenza assoluta da un Qualcuno infinitamente più grande di lui?

         E L’UOMO VIVE
         “Erba” e trema verde
         sulle prode, sui cigli.
         “Uccello” e vola e canta
         una piccola piuma d’oro.
                        (P.P. PASOLINI, Li peraulis o La creatiòn, da Poesie disperse, 1946)

In questi versi finali, il poeta sembra approdare comunque ad una significativa consapevolezza: l’uomo, al soffio di Dio, vive in armonia con la natura circostante, sino a tremare con l’erba, a volare e cantare come un uccello. C’è però qualcosa che risalta: il verso finale svela un soggetto diverso da quello che era l’uomo fino a poco prima. Dov’è finito l’uomo? E cosa rappresenta questa piccola piuma d’oro? E se, forse, l’uomo si sia in realtà trasformato in essa? Questa ipotesi non sembra poi così inverosimile; in fondo, a pensarci, la vulnerabilità della creatura umana può benissimo essere simboleggiata da una piccola piuma, ma la sua preziosità, diremmo anche divinità, è certamente quella coperta d’oro con cui Dio ha voluto cingerlo sin dall’eternità. Si tratta, per l’uomo, di prenderne consapevolezza (non a caso, il poeta ha creato una sorta di acrostico: si leggano le parole in maiuscolo a capo delle ultime quartine e si coglierà un ulteriore senso della narrazione poetica). Ed è così che ci inoltriamo nel cuore del mistero della Resurrezione. Un mistero che inizia con un’attesa (eco di Maria di Magdala al sepolcro):

         Solo l’amare, solo il conoscere
         conta, non l’aver amato,
         non l’aver conosciuto. Dà angoscia

         il vivere di un consumato
         amore. L’anima non cresce più.
                        (P.P. PASOLINI, Il pianto della scavatrice, da Le ceneri di Gramsci, 1957)

L’attesa può infatti essere caratterizzata da una stasi, da un pessimismo diffuso, da un atteggiamento rinunciatario. A volte ci si ancora troppo ai ricordi, si rimpiange un tempo d’oro non più tornato, eppure siamo sempre noi, vivi sull’onda del tempo presente. Ancora una volta, Pasolini ci invita calorosamente a non arrestarci nel cammino, davanti all’angoscia che prende per un amore che non si vive più.

         L’anima non cresce più

Ed è terribilmente vero! Quanto più dovremmo, invece, puntare sulla conoscenza e sull’amore nel presente, l’unico tempo che ci è dato di vivere… L’attesa, seppur dolorosa per le ferite del passato, potrebbe anche tramutarsi in preghiera:

         Perdimi, Signore, ché non oda
         gli anni sommersi taciti spogliarmi,
         sì che cangi la pena in moto aperto:
         curva minore
         del vivere m’avanza.

In tal modo, consapevole della impossibilità dell’uomo di mutare certi pesi in gioie, Quasimodo si accosta a Dio perché

         cangi la pena in moto aperto

meravigliosa espressione che ci restituisce quell’insopprimibile desiderio dentro il cuore umano che anela alle più alte forme di vita, nonostante avanzi un tratto di vita forse discendente, comunque umiliante:

         E fammi vento che naviga felice,
         o seme d’orzo o lebbra
         che sé esprima in pieno divenire.
         E sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Ci si sente inondati di meraviglia in questa poesia/preghiera a Dio, perché

         sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Si presagisce come la pienezza è nell’amore verso Dio, ma è un amore difficile. Allora il poeta chiede, a Colui che sembra essere l’oggetto del suo amore e che si rivela esserne il soggetto, di rendergli facile questo amore sia nell’erba che tende con le sue cime alla luce, sia nella piaga che buca la carne. Quanto realismo in questi esili e intensissimi versi! L’uomo è fatto così: di slanci altissimi e di terribili cadute, e può cucire entrambi e ritrovare senso soltanto attraverso l’amore di Dio.
I versi che seguono continuano questo cammino di ascesi in modo memorabile:

         Io tento una vita:
         ognuno si scalza e vacilla
         in ricerca.

         Ancora mi lasci: son solo
         nell’ombra che in sera si spande,
         né valico s’apre al dolce
         sfociare del sangue.
                        (S. QUASIMODO, Curva minore, da Acque e terre, 1920-1929)

Forse meriterebbero soltanto silenzio, versi come questi, rarissimi nella poesia contemporanea. Qui il confine con la mistica è davvero labile. Si ode la grande fatica dell’uomo, identificatosi con tutta l’umanità, nella vacillante ricerca di risposte ultime e appaganti, ovvero di Dio. Un Dio che si percepisce come Qualcuno che ancora una volta si allontana, come nelle “notti” dei grandi mistici di ogni latitudine, lasciando completamente soli nell’ombra del giorno che di sera si fa ancor più cupa, mentre il sangue del proprio dolore, reso dolce da questa attesa colma di preghiera, non riesce ancora a trovare il giusto valico ove sfociare, come ad esprimere l’anelito formidabile di chi non si è ancora arreso a trovare un senso a tante lacrime di sacrificio.
Dopo tanto peregrinare, tra grida, angosce, attese di pianto, ecco però una visione purificata, quella di una nuova vita, annunciata dall’intramontabile Giovanni Pascoli:

         […] Ti vidi, o giorno che su l’infinita
         via delle nebulose ultime e sole
                  appari. M’apparisti, o vita
                  che splendi quando è morto il sole.

         Un alito era, solo, per il miro
         gurge, di luce: un alito disperso
                  da un solo tacito respiro
                  e che velava l’universo:

         come se fosse, là, per un istante,
         immobile sul sonno e su l’oblio
                  di tutti, nella sua raggiante
                  incomprensibilità, Dio!
                        (G. PASCOLI, L’aurora boreale, da Odi e Inni, 1907)

Non ci soffermiamo sui versi, il cui significato appare chiaro, tuttavia fissiamo l’attenzione sulle ultime parole: come fosse là, per un istante, immobile… nella sua raggiante incomprensibilità, Dio. Ci portano sul grande baratro del mattino di Pasqua, quando misteriosamente, in un alito disperso, in un solo tacito respiro, nel quale racchiudiamo il palpito del mondo, riusciamo a cogliere con l’intuizione la raggiante incomprensibilità di Dio! Davvero è l’inizio di una nuova vita di fede…

         Tu verrai e libererai nella luce
         queste finestre sbarrate di luce,
         ed io, polvere, ritornerò nella luce.
         Ti chiamerò: - Chi come Dio?

         E mi farai vedere un fiume
         delle mie canzoni perdute.

         Ora, mi dirai, non devi temere più:
         Israele è il tuo cuore,
         tutte le creature sono risorte.
         Aprono le braccia colme di luce.
                        (ELIO FIORE, The Lord of Souls, da In purissimo azzurro, 1985)



IN PASSIONE DOMINI - Venerdì Santo


Trattare il tema del dolore, della sofferenza umana è cosa difficile e probabilmente anche pericolosa. Si tratta di un ambito che esige un sommo rispetto e si corre il rischio di non saper esprimere sentimenti, pensieri opportuni in circostanze nelle quali sono coinvolte le fibre più intime della persona. Eppure ci sembra, secondo quanto abbiamo imparato nella precedente tappa, che la poesia possa preservarci da tali rischi ed anzi renderci più agevole l’accesso al sacrario dell’intimità sofferta dell’essere umano. Vogliamo farlo con alcuni versi del premio Nobel per la letteratura, il modicano Salvatore Quasimodo. Chi ha avuto modo di accostarsi alla sua vita, sa bene di quanta sofferenza è stata intessuta, soprattutto nella ricerca della verità che fino all’ultimo stentava a trovare:

[…]
La vita non è sogno. Vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.
      (Salvatore Quasimodo, da THÀNATOS ATHÀNATOS,
      in La vita non è sogno, 1946-1948)

La bellezza di questi versi è difficilmente narrabile. Si annuncia anzitutto la crudezza della vita, la sua drammatica identità:
         la vita non è sogno
E il fatto che a dirlo sia un poeta, fa riflettere ancor di più, specialmente pensando che sono proprio essi i primi accusati di essere degli accaniti sognatori! Ed invece:
         vero l’uomo
         e il suo pianto geloso del silenzio
Il contrasto con la precedente espressione è fortissimo: non solo la vita non è sogno, ma l’uomo è vero, ha in sé una radice che lo rende autentico, reale, assoluto. Ma l’uomo non è solo, è in compagnia del suo pianto. E forse è questo che lo rende vero… Difatti, è un pianto animato da una particolare gelosia, ovvero da un desiderio di silenzio. Verità, dolore, solitudine, in questi versi sono misteriosamente e armonicamente intrecciati. Non ci richiama forse l’evento drammatico del Cristo in croce?
Inchiodato al suo pianto, il cuore si apre ad una inaudita preghiera:
         Dio del silenzio, apri la solitudine
Impressiona in questi esili versi la struggente ricerca di Dio all’interno dell’anima piagata. Al fondo di quella solitudine, il poeta scorge come la presenza di un Dio che attende di essere invocato, pregato, supplicato, perché l’uomo sembra incapace di reggere la sofferenza e la conseguente solitudine.
Questa poesia crediamo ridoni una speranza profonda a quanti nella ricerca di senso rode il fuoco dell’amore che conficca i dolci chiodi dentro la propria carne sulla croce.
In un’altra poesia, ci imbattiamo in alcuni versi a tratti enigmatici. Eccoli:

io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.
      (Salvatore Quasimodo, IO MI CRESCO UN MALE,
      in Ed è subito sera, 1920-1929)

In una possibile interpretazione, ci sembra ravvisare, sempre rimanendo nel tema della cruda realtà della vita, il rapporto che l’uomo tesse con il male:
         io mi cresco un male
         da vivo
Il poeta, riconoscendo lo scorrere della vita in sé, non può non ammettere che essa comprende anche il male, ma non un male subito, bensì un male che in prima persona “si cresce”, quasi a dire che si fa complice di questo male. Facendo attenzione anche all’articolo utilizzato, nella sua indeterminazione lascia presagire la difficoltà di identificare il male: un male. Resta fermo il fatto che l’uomo alimenta questo male indistinto, nel tentativo di farlo proprio. Lo stesso uomo, poi, paradossalmente sceglie di cambiare rotta, forse perché sa già per istinto che in questa complicità non ci si trova, si lega a forze oscure e a tragici destini. Ed ecco
         che a mutare
         ne soffre anche la carne
Questi versi dobbiamo ammettere essere stupefacenti. Non poteva esprimere meglio il poeta il senso profondo della penitenza, dando prova di una grande maturità interiore. La penitenza non è qualcosa di imposto dall’esterno, ma un nascere quasi spontaneo dal cuore di una lotta contro il male nella quale ci si sente misteriosamente coinvolti. Il poeta vuole mutare la sorte del male dentro di sé con cui scende a compromessi, ma scopre che tale tentativo ha un prezzo alto da pagare:
         ne soffre anche la carne
C’è un dolore anche fisico da sopportare per poter espiare la colpa, la compromissione con il male. Volersi liberare da un male che con consapevolezza si riconosce di avere dentro, significa affrontare una grande sofferenza, dovuta innanzitutto all’andare contro la natura umana ribelle ai dettami dello spirito che la abita.

In povertà di carne, come sono
Eccomi, Padre: polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.

Ma se scarnire non sapevo un tempo
la voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.
      (Salvatore Quasimodo, Avidamente allargo la mia mano,
      in Ed è subito sera, 1920-1929)

Il coraggio del poeta è tale da non avere paura di allargare avidamente la mano, in richiesta di ciò che lo possa realmente colmare e realizzare. Parla di una certa avidità, perché in realtà la mano mira a toccare, a possedere cose materiali. Ed invece, spiazzando ogni immaginazione, il poeta, con decisione e asciuttezza domanda:
         dammi dolore cibo cotidiano
Ripensando a quella preghiera che ogni cristiano ripete più volte al giorno, il Padre Nostro, scopriamo come la poesia ci aiuti a interpretare in maniera più “saporosa” quella richiesta del pane quotidiano che innalziamo a Dio. Ora quel pane diventa il dolore, ovvero una possibilità di riscatto, di perdono, di espiazione. Il poeta ci illumina, perché ha capito, forse, che senza croce non c’è alcuna salvezza, salvezza che poi non è altro che quella pienezza di amore e di vita che ogni essere umano porta dentro di sé. E allora non resta, privi ormai di forze e in povertà di carne, che abbandonarci nelle mani dell’Altissimo:

         Eccomi, Padre

IN COENA DOMINI - Giovedì Santo


Accogliamo adesso l’invito porto dai versi di un poeta poco noto, che sembrano ben esprimere quanto il giovedì santo contiene in sé. Si tratta di Georg Trackl, poeta austriaco morto ventisettenne nel 1914 per overdose di cocaina, quando gli orrori della Prima Guerra mondiale gli si rivelarono come l’apice della sua veggente disperazione. Scrive tre quartine, in apparenza molto tradizionali, in realtà carichi di una straordinaria luce ed energia. Ecco la prima:

         Quando la neve cade alla finestra
         A lungo suona la campana della sera,
         Per molti la tavola è preparata,
         E la casa è tutta in ordine.

Sembrerebbe un atmosfera crepuscolare, tipica di un animo che protende l’orecchio al proprio tempo scorgendone tutta la decadenza. E del crepuscolo, coglie elementi molto essenziali: la neve che cade, una indefinita finestra, una campana, e poi l’intimità di una casa al cui interno un tavola è preparata. Colpisce quel “per molti”, come a voler evidenziare un unico destino che accomuna gli uomini. Inoltre si coglie un’assenza. Per molti è preparata, ma non si vede nessuno. Riprende:

         Più d’uno nel suo peregrinare
         Giunge alla porta per sentieri oscuri.

Ecco giungere qualcuno. Che strano, però: prima descrive l’interno di una casa, ora passa all’esterno, da cui giunge “più d’uno”. Da molti, il numero si stringe a pochi. Non solo: scopriamo un pellegrinaggio che accomuna questi uomini che giungono alla porta della casa per sentieri oscuri. La certezza che in un primo momento dava la tavola preparata e la casa ben ordinata comincia ora a sgretolarsi. Chi giunge in questa casa è in realtà pellegrino e per di più vi arriva attraverso sentieri oscuri. Come è possibile tornare nella propria casa per sentieri oscuri? Ciò induce a pensare che probabilmente non si tratti neppure più di una semplice casa domestica. Ce ne dà conferma quel giungere alla porta. Il poeta sta sicuramente ricorrendo a particolari significati simbolici. Seguiamolo in questo suo intento:

         Aureo fiorisce l’albero della Grazia
         Dal fresco succo della terra.

Eccolo! Un elemento ancestrale, mitologico e, per ebrei e cristiani, pienamente sacro: l’albero della Grazia, della Vita. Il poeta scorge un elemento soprannaturale, che sembra proprio vedere all’interno di questa sua descrizione via via ascendente verso significati sempre più alti. Addirittura quest’albero reca fiori d’oro in cima, linfa fresca alle radici nascoste nel buio della terra. In realtà, allora, non è un elemento prettamente spirituale, ma misteriosamente unito alla dimensione terrena, la più oscura, eppur feconda nel suo fresco e succoso grembo. Ultima quartina:

         Viandante entra silenzioso:
         Dolore impietrì la soglia.

E qui entriamo nel cuore del mistero! Il mistero della vita del viandante, giunto per sentieri oscuri alla porta della casa che sembrerebbe essere il porto definitivo dove armeggiare la barca dell’esistenza. Ma il tono è molto tragico. Parla di “viandante”: perché non usa l’articolo? Forse allude all’uomo contemporaneo privo di una precisa identità? Parla di “dolore”: anche qui, che voglia alludere all’anonimato in cui tanto dolore oggi rimane imprigionato senza voce?
Quel che è stupefacente è quanto accade: il viandante entra silenzioso e la soglia diviene pietra a causa del dolore. In questa esperienza, che sembra farsi interiore al sommo grado, troviamo il silenzio, il miglior compagno per entrare in una comunicazione autentica con il nostro vero essere. Essere che conosce il dolore, al punto da trasformare in pietra la soglia. Com’era prima la soglia se adesso è pietra? E perché si è trasformata? Leggiamo gli ultimi due versi di questa quartina finale:

         Là risplende in puro chiarore
         Sulla tavola pane e vino.

Le domande aperte in precedenza sembrano finalmente trovare una risposta, ma non è semplice comprendere i simboli che il poeta offre ai nostri occhi. Diciamo qui “occhi”, perché la scelta dell’autore è chiaramente pittorica: descrive fondamentalmente per immagini, oltre che per suoni. Torniamo ai simboli:

         Sulla tavola pane e vino.

Ma non sono proprio gli elementi dell’Ultima cena del Signore? E cosa ci fanno qui, in questa misteriosa casa, divenuta via via più interiore e adesso, tutta d’un tratto, universale? Che sia una chiesa, dato che si parlava di una soglia impietrita? Eppure prima non era di pietra…e allora?
Questi paradossi sono l’essenza stessa della poesia, che vuole schiudere più che definire, allargare, più che rispondere. Ed è per questo che vogliamo soltanto tentare un’interpretazione, sapendo che non è l’ultima, né la migliore, né la definitiva. E ci serviamo di quella che è stata la prima stesura della poesia, di un retroscena quindi, che ci aiuterà a fare chiarezza sull’enigma, nel quale ci ha introdotti magistralmente il poeta:

         Quando la neve cade alla finestra
         A lungo suona la campana della sera,
         Per molti la tavola è preparata,
         E la casa è tutta in ordine.

         Più d’uno nel suo peregrinare
         Giunge alla porta per sentieri oscuri.
         La sua ferita piena di grazie
         Lenisce la dolce forza dell’amore.

         Oh, nuda sofferenza dell’uomo!
         Colui che, muto, ha lottato con gli angeli.
         Domato dal sacro dolore, tende silenziosamente la mano
         Verso il pane e il vino del Signore.

Dopo aver descritto quel “più d’uno” che giungeva alla porta per sentieri oscuri, ecco ora scoprire dietro il vagabondare una ferita aperta, in attesa. Si trattava allora di un movimento dell’anima, dello strazio di chi attende nel profondo una redenzione. Nella sua straordinaria sensibilità da veggente, il poeta scorge una pienezza di grazie nella stessa ferita, come avendone già riconosciuto il significato e il valore. Una ferita non più solitaria, perché lenita dalla dolce forza dell’amore. Proprio l’amore è stato capace di abbracciare la nuda sofferenza umana; di premiare l’estenuante lotta contro gli angeli. Muta perché con ogni probabilità solitaria e notturna, dove solitudine e notte devono intendersi anche come metafore del tempo che ognuno vive. Dice:

         Domato dal sacro dolore

L’uomo, in perenne lotta contro se stesso, trova riposo nel sacro dolore, addirittura venendone domato. Il dolore, “sacro” perché forse condiviso da Dio che solo può renderlo tale, doma l’inquieto cuore dell’uomo, perché sa come la sua cattiva inclinazione continuamente lo allontanerebbe da questo porto sospirato. Resta ora da capire la sorgente di questo amore, che è tale da rendere sacro persino il dolore:

         tende silenziosamente la mano
         Verso il pane e il vino del Signore.

Qui rimane spazio solo per lo stupore, dinanzi a questo tendersi estremo, quasi disperato, dell’anima, attraverso la sua parte corporea simboleggiata dalla mano, quindi in unità di anima e corpo,

         Verso il pane e il vino del Signore.

Soltanto adesso diviene comprensibile il perché la soglia impietrì al passaggio del viandante, anzi, a causa del suo dolore. Quello a cui ci ha fatto assistere il poeta è in realtà una liturgia, nella quale la vita diventa un tutt’uno con il mistero celebrato. E allora, quel pane e quel vino del Signore non stanno altro che sull’altare del sacrificio, un altare di pietra. Nel varcare la soglia di questo mistero di comunione con Colui che ha voluto assumere la nostra carne, la nostra sofferenza, non si può restarne estranei: ci si trasforma, bensì, nello stesso altare che si contempla e adora.
Casa, cuore e chiesa trasfondono adesso nel Corpo e nel Sangue del Signore,

         silenziosamente.

Quel pane e quel vino, che sono il segno di un’integrale offerta, misteriosamente s’incontrano unificandosi con l’integrale offerta di dolore del viandante, ovvero di ognuno di noi.

Presentazione del percorso


         Solo per te si isolano i poeti
         e ammassano immagini ricche e fruscianti
         e vanno per il mondo maturando nel confronto
         e sono sempre tanto soli…
         E i pittori dipingono quadri
         solo perché ti sia ridata eterna
         la natura che creasti fugace:
         tutto si fa immortale. Vedi?
                  (R.M. Rilke, da Il libro d’ore, 1903)

Con questa poesia del grandissimo poeta austriaco, vogliamo inaugurare una serie di riflessioni per il momento centrale del mistero cristiano e vogliamo farlo utilizzando proprio questo canale molto particolare. La poesia, infatti, arte “povera” per eccellenza, ma ricca di quella spiritualità che si sprigiona dalle stesse parole, ha la capacità di cogliere significati alti e “altri” rispetto allo scorrere muto della quotidianità, anche perché, arte tra le arti, riesce ad esprimere tratti dell’anima umana che tanti discorsi razionali non riescono a cogliere o ad esaurire totalmente. E un poeta come Rilke ci fa subito presagire un’aria quaresimale, quando sin dai primi versi comunica la ricerca del poeta nella volontaria solitudine:
         solo per te si isolano i poeti
Ma per chi si isolano i poeti? Certamente per Dio, per quella verità che presagiscono fondare ogni pensiero, gesto, sentimento, scelta. Questo lo si ricava però dal contesto dell’intera opera poetica, che qui non possiamo analizzare. Ecco che scopriamo la solitudine essere in realtà densa di relazione, una relazione addirittura che dalla dimensione verticale, con Dio, trapassa a quella orizzontale:
         vanno per il mondo maturando nel confronto
Questo vuol dire allora che nella solitudine intensamente vissuta l’uomo in realtà ritrova un Altro con cui si relaziona, ma anche degli altri, attraverso i quali può maturare in un confronto non sempre pacifico, ma pur sempre costruttivo.
         E sono sempre tanto soli…
Eppure, nonostante questa impressione di comunione, ci si ritrova soli, sembra dirci il poeta, parlando dei suoi simili. Ma siano poi così diversi dai poeti, quando ci mettiamo in ricerca della verità o di un senso da dare alla vita? Non siamo tuttora di passaggio tra le strade deserte di questo mondo che pur illuminano di folla i nostri occhi ansimanti e le nostre mani in attesa?
Continua l’artista a scavare fino a scorgere un’azione tipica del suo fare, forse oggi un po’ insolita da concepire: eternare la natura, trasfigurare il mondo. Come può un semplice uomo arrivare a tanto, se non perché un Autore ancor più grande lo fa partecipe di Sé e del suo amore creativo? Possiamo trovare in ciò una grande gioia, saperci capaci di restituire al Creatore ciò che Egli stesso ha creato mortale e restituirglielo immortale. Ma giustamente, occorre avere uno sguardo particolarmente affinato ed il poeta lo esprime chiedendo:
         Vedi?
Ed allora, al termine di questo cammino quaresimale, non ci resta che accogliere questo invito, farlo nostro, per cercare di fissare lo sguardo su quelle realtà immutabili che reggono e portano al loro fine le cose che nell’universo nascono, mutano e muoiono continuamente.


Nota per i lettori

Carissimi lettori,  ci faremo accompagnare in questo ultimo tratto di cammino verso la Pasqua, da un mio carissimo amico e collega: Giuseppe Di Mauro, un laico impegnato nella pastorale della cultura che sta completando gli studi di Teologia presso lo Studio Teologico “San Paolo” di Catania.
A lui va il mio più affettuoso ringraziamento per il suo prezioso e pronto aiuto. Giuseppe D., mi dà così la possibilità di inserire in questa Biblia pauperum, una pagina dedicata ad un'arte che è da considerarsi a pieno titolo sacra, la Poesia.

Avendo avuto più volte la possibilità di confrontarmi con lui, vi assicuro che la sua bellissima preparazione culturale-spirituale ci aiuterà ad illuminare il mistero del Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio.



venerdì 23 marzo 2012

Vogliamo vedere Gesù (Gv 12,20-33)


            Il Contesto

Gesù si trova nuovamente a Gerusalemme, non sta più vivendo la sua prima Pasqua ma la sua Pasqua! Il cammino di Gesù giunge al suo fine (non alla sua fine), la glorificazione. Anche il nostro cammino sta per giungere al suo fine, infatti questa Quaresima volge verso il suo termine, fra otto giorni celebreremo la Grande Settimana, è tempo oramai di guardare all’Essenziale, ma non andiamo troppo avanti e gustiamoci ancora questa quinta tappa del nostro itinerario verso la meta pasquale.

                                                                 L’evento

Alcuni greci chiedono ai discepoli di poter vedere Gesù, ma stranamente non sappiamo se ciò realmente avverrà, Gesù sembra insolitamente schivo, infatti Egli è sempre disponibile ad incontrare chiunque lo cerchi. È cambiato il carattere di Gesù? No, di questo possiamo stare tranquilli. Il suo atteggiamento nasconde un messaggio (o forse più di uno), forse Egli non voleva essere scambiato per un fenomeno da baraccone eppure, paradossalmente, si lascia vedere così come Egli è (chicco caduto in terra), rimanendo però incompreso.
Gesù vuole farsi vedere per come è veramente, vuole che il suo volto brilli davanti a noi nel pieno della sua forma.
Vogliamo vedere Gesù!
Che cosa vogliamo vedere? I suoi tratti somatici, il colore dei suoi capelli o dei suoi occhi? Ma non cadremo nell’inganno dell’apparenza, di come noi vogliamo vedere Gesù? No, l’ora è giunta, Gesù si mostrerà a noi senza pericolo di equivoci!

            L’opera d’arte

Per questa V Domenica di Quaresima ho scelto un’immagine molto essenziale, e nonostante l’artista sia contemporaneo di quelli trattati finora, lo stile che utilizza è completamente diverso! Questa domenica sostituiremo l’armonia delle forme e l’eleganza delle linee con l’arte dura dell’icona. La definisco dura perché è difficile entrarvi senza un buon esercizio (proprio come la Pasqua non può essere vissuta bene senza una buona preparazione).
L’icona non è un’opera d’arte come le altre, essa è Parola di Dio scritta con il pennello, e tra tutte le pagine colorate che la tradizione iconografica conserva nel suo libro, c’è ne una particolarmente significativa, potremmo definirla la “matrice” di tutte le icone: il Volto santo.
Esso è legato ad una leggenda secondo cui il Re di Odessa, essendo malato, volle vedere Gesù per guarire. Inviò allora dei pittori al Maestro affinché ne immortalassero i tratti del volto, ma nessuno vi riuscì. Allora Gesù si appoggiò un pezzo di stoffa sul volto, la piegò e la consegno agli artisti, questi essendo ritornati dal Re gliela consegnarono ed egli vi trovò impressa l’immagine del Redentore.
L’opera che ho scelto, in particolare è il Volto di Cristo di Andrej Rublev.
Originariamente quest’opera era molto più grande e rappresentava un Cristo pantocratore, però il tempo e lo stato di conservazione hanno fatto sì che quasi tutta la superficie pittorica andasse persa, lasciando intatto solo il volto. Smontare tutte le categorie e le precomprensioni su Gesù, questo è un messaggio che vorrei consegnarvi oggi, lasciamo crollare tutto e guardiamo l’essenziale.
Vogliamo vedere Gesù!
Guardare il volto di una persona, e specialmente di Gesù, significa entrare in contatto profondamente con essa.
Vogliamo vederti Gesù.
Vogliamo vederti come sei veramente,
non ricoperto dello zucchero delle nostre aspettative,
non appesantito dalla corazza delle nostre pretese,
non vogliamo osservarti secondo le nostre aspettative:
biondino, con lo sguardo perso nel nulla
o iracondo giudice della storia.
Vogliamo vederti come tu sei,
permettici di contemplare la tua vera identità,
quell’identità inguardabile, perché non ha né apparenza né bellezza.
A. Rublev, Pantocratore, Galleria Tretyakov
Cosa ha di bello il volto del Crocifisso?
Il naso, la bocca, i capelli, gli occhi…? 
Niente di tutto questo!
Eppure non riusciamo a staccarti 
gli occhi di dosso.
Vogliamo vederti Signore!
La tua bellezza non  è bagnata 
dal sudore delle palestre
ma dalle lacrime della Passione.
La tua bellezza non odora di effimere essenze
ma profuma d’Amore eterno.
La tua bellezza non cerca di fuggire la morte
ma vive la vita come dono.
La tua bellezza non nasconde il tempo che passa
ma ci dona l’eternità.
Vogliamo vederti Gesù!

venerdì 16 marzo 2012

Dio ha tanto amato il mondo (Gv 3, 14-21)

         Il Contesto
Questa domenica ritroviamo Gesù dove lo abbiamo lasciato: a Gerusalemme per celebrare la sua prima Pasqua con i discepoli. Dopo gli eventi del Tempio (domenica scorsa) sicuramente Gesù doveva essere diventato un personaggio molto famoso nella Città santa, il suo gesto profetico avrà sicuramente diviso il tessuto sociale della città suscitando consensi e rifiuti: il consenso di coloro che attendevano il Regno di Dio e il rifiuto dei commercianti e dei cambiavalute, il consenso (sicuramente equivoco) di coloro che auspicavano la rivolta armata contro Roma e il rifiuto della classe dirigente della città. Soprattutto a questi ultimi, preoccupati di mantenere l’ordine durante l’evento pasquale, và la nostra attenzione, non è difficile immaginarli in consiglio a discutere su chi è Gesù? Tra di loro troviamo anche Nicodemo…


                                                              L’evento
L’evento di oggi è un incontro. Nicodemo era un capo dei Giudei, ma il suo interesse per Gesù è diverso da quello dei suoi colleghi, lui non va da Gesù per cercare di coglierlo in fallo davanti al popolo ma lo incontra nel buio della notte, in gran segreto. Il suo dialogo/incontro con Gesù si riduce a poche battute su un tema di difficile comprensione: la rinascita dell’uomo. Successivamente Nicodemo sembra scomparire nel buio da dove era venuto, Giovanni non parlerà più di lui se non alla fine del suo vangelo durante la deposizione di Gesù.
Perché questa figura è così enigmatica, misteriosa? Forse Nicodemo impersona tutti coloro che cercano il Dio vero, che non si accontentano di ciò che sentono dire su Dio ma vogliono incontrarlo di persona, anche se di nascosto, nei momenti più bui… strano cercare la Luce di Notte! Però forse è anche vero che il sole ferisce gli occhi a coloro che sono abituati a stare nel buio, e proprio per questi che la Luce, per prima,  è venuta nel mondo.


         L’opera d’arte
Michelangelo, Pietà, Museo del Duomo di Firenze
Ci accompagnerà oggi nella nostra lectio divina/artistica un grande del Rinascimento, un gigante insuperabile dell’arte: Michelangelo Buonarroti, Pittore, Architetto, Disegnatore, Poeta ma soprattutto Scultore, come egli stesso amava definirsi. L’opera che prenderemo in considerazione è: la Pietà progettata per la propria tomba, poi denominata Bandini, che si trova al Museo del Duomo di Firenze. Di Michelangelo conosciamo diverse Pietà, la più celebre è sicuramente quella romana, collocata nella prima cappella a destra nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, la più drammatica è quella Rondanini, ubicata nel Museo del Castello Sforzesco a  Milano e tra le meno conosciute collochiamo la Pietà Bandini (che prendiamo in analisi oggi) e la Pietà di Palestrina.
Il tema della Pietà riguarda essenzialmente la contemplazione di Maria, a volte circondata da altri personaggi, che accoglie nel suo grembo il figlio dopo la croci- fissione.
L’osservatore assiste ad una scena che gli impone grande silenzio e rispetto, per non turbare la dram- matica contemplazio- ne di una madre che culla il proprio figlio per l’ultima volta.
La scultura è composta da quattro personaggi: Nicodemo, Gesù, Maria e la Maddalena (o forse un Angelo). Nicodemo affida il corpo del Crocifisso alle braccia di Maria ma allo stesso tempo lo sostiene con tanta forza che quasi non lo vuole abbandonare, perché? Nel volto di Nicodemo non è difficile riconoscere l’autoritratto dello stesso Michelangelo, dunque possiamo ipotizzare che nello scolpire questa opera egli intendesse consegnare qualcosa ai suoi posteri (una sorta di testamento, dopotutto era il suo monumento sepolcrale), una vera e propria lezione di vita, più che di scultura: come il compito dell’artista è trovare la figura che si cela nel blocco di marmo e liberala, il dovere del cristiano è trovare Cristo nella propria vita e mostrarlo! Per questo Michelangelo presta i suoi tratti a Nicodemo, perché anch’egli ha cercato di comprendere Gesù, e in questo gesto di consegna e ostensione che Nicodemo compie l’artista consegna e mostra di aver trovato Cristo. Ma procedendo ancora nella lettura di questa magnifica opera troviamo la figura di Nicodemo caricata di un simbolismo ancora maggiore: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”, il Nicodemo-Michelangelo diventa immagine del Padre che consegna il proprio figlio all’umanità (la Vergine Maria). Questa non è una novità nel pensiero michelangiolesco, troviamo infatti la stessa simbologia nel Tondo Doni (Giuseppe/Padre consegna Gesù/Figlio a Maria/Umanità). Il Padre consegna all’umanità intera il suo unico Figlio, al tempo stesso Cristo è presentato come colui che è consegnato, che trova la sua pienezza nell’essere donato per… Egli esce dal grembo del Padre per entrare in quello di Maria (Incarnazione) e ancora abbandona il grembo materno per cadere, come il seme, nel grembo della terra (Morte e sepoltura), non c’è aspetto o sfumatura della vita dell’uomo che Gesù non abbia vissuto, tranne il peccato! Eppure in croce Egli è trattato come peccato per noi. Ecco il grande dono di Dio per l’umanità, ecco il grande “testamento” d’Amore: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito!