domenica 4 novembre 2012

Per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo

Michelangelo, Tondo Doni, XV sec.
Preghiamo:         
Creati per la gloria del tuo nome,
redenti dal tuo sangue sulla croce,
segnati dal sigillo del tuo Spirito,
noi t'invochiamo: Salvaci, o Signore!

Tu spezza le catene della colpa
proteggi i miti, libera gli oppressi
e conduci nel cielo ai quieti pascoli
il popolo che crede nel tuo amore.

Sia lode e onore a te, pastore buono,
luce radiosa dell'eterna luce,
che vivi con il Padre e il Santo Spirito
nei secoli dei secoli glorioso. Amen.

 
Ascoltiamo: Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata. (Is 55, 10-11)  

 
Contempliamo: Aver contemplato la natura di Dio nell’eternità, nell’assenza del tempo e dello spazio, ci potrebbe far cadere nell’errore di consideralo un po’ come il modello di dio aristotelico del “motore immobile”. Ma Gesù Cristo ci ha rivelato che Dio non è immobile, che non si chiude in sé per paura di contaminarsi o di perdere la sua dignità. Dio si apre a noi. Dio è con noi! Lo dimostra il fatto che Egli ha mandato la sua Parola, il suo Verbo, suo Figlio. Guardate bene: quella che sembra una tradizionale S. Famiglia, in verità traduce simbolicamente quello che abbiamo appena detto, il Padre manda il suo Verbo per l’umanità. Giuseppe (che rappresenta Dio Padre) consegna a Maria (che rappresenta l’umanità) il piccolo Gesù (il Verbo di Dio). Il profeta Isaia ci assicura che la Parola di Dio non ritornerà a lui senza aver compiuto l’opera affidatagli, ma quale è quest’opera? Qual è l’opera di Cristo, che poi per riflesso diviene l’opera del cristiano? Diventare nella propria vita un dono per l’umanità! Quanto costa essere un dono per gli altri… pensiamo a Cristo: Egli si trovava nel seno del Padre, nella beatitudine più profonda. Eppure non considerò cosa preziosa l’essere Dio ma si abbassò facendosi,  per volere del Padre, regalo per ogni uomo. Per il bambino Egli si fece piccolo e imparò a camminare. Per il ragazzo Egli sperimentò il disaccordo con i propri genitori. Per il giovane Egli faticò nella ricerca del lavoro. Per chi è malato e solo Egli sopportò l’agonia attorniato dai suoi che dormivano. Per chi si ente tradito Egli sperimentò l’amarezza del bacio di Giuda. Per chi è condannato ingiustamente Egli subì due processi iniqui. Per chi soffre senza colpe Egli portò la Croce. Per ogni uomo che muore abbandonato Egli morì gridando: “Perché?”. Per noi tutti Egli è ritornato! Perciò possiamo dire che:

 
“Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l'umanità, ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l'unità della persona.

Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com'Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto. E il suo Regno non avrà fine”.

dal Credo del Popolo di Dio
di Paolo VI

domenica 28 ottobre 2012

Credo in un solo Dio

Preghiamo:
A. Rublev, Ss. Trinità, XV sec.
O Trinità beata
oceano di pace,
la Chiesa a te consacra
la sua lode perenne.
Padre d’immensa gloria,
Verbo d’eterna luce,
Spirito di sapienza
e carità perfetta.
 
Roveto inestinguibile
di verità d’amore,
ravviva in noi la gioia
dell’agape fraterna.
O principio e sorgente
della vita immortale,
rivelaci il tuo volto
nella gloria dei cieli. Amen.


Ascoltiamo:  Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato  da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni  gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in  noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. (1Gv 4, 7-16)

 
Contempliamo: All’inizio di questo Anno della Fede vogliamo entrare, grazie alle espressioni più sublimi dell’ingegno umano: la pittura, la scultura, la poesia… dentro il Mistero della Fede. Mistero da accogliere. Mistero da contemplare. Mistero da Vivere.
L’accoglienza e la contemplazione sono le prime due dimensioni che vogliamo far nostre e professare oggi.
L’accoglienza: qualità più alta di Dio, diviene per noi cristiani un imperativo assoluto. Il Padre che da sempre genera il Figlio e il Figlio che da sempre è il generato dal Padre accolgono l’un l’altro lo Spirito Santo, vero vincolo di Amore. Eppure nessuno di loro scompare! Li vedete ben distinti, ognuno al suo posto! Non vi è smania di protagonismi o ansia d’apparire che oscurerebbero uno a favore dell’altro. Grande mistero e dotta lezione per noi: ognuno accoglie l’altro, ma nessuno di essi è fagocitato da chi gli sta accanto.
La contemplazione: in Dio tutto è armonia, fin dal principio Egli è bellezza. Contemplando oggi questa icona noi già pregustiamo il fine di ogni nostra attesa e speranza: vedere Dio. Ma com’è possibile vedere Dio? L’apostolo ha detto: “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri…”, carissimi vogliamo vedere Dio? Dove è Carità e Amore lì c’è Dio! Alcuni teologi medievali dicevano: “Le cose viste noi le consegniamo” (Contemplata aliis tradere). Modificando un po’ questa espressione, potremmo dire che le cose contemplate noi le realizziamo! Vogliamo essere - come amava dire don Tonino Bello - contemplattivi, per realizzare nel mondo ciò che abbiamo contemplato, per vivere nella vita ciò che abbiamo adorato!
Professiamo ora, fratelli e sorelle, la nostra fede nel Dio uno e trino:

“Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli, e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale.

Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè; ed Egli è Amore, come ce lo insegna l'Apostolo Giovanni: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l'unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l'umana misura.

Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell'Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre deve essere venerata l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità”.

dal Credo del Popolo di Dio
di Paolo VI

 

mercoledì 24 ottobre 2012

Biblia pauperum - Speciale Anno della Fede


Carissimi lettori, dopo una lunga pausa vi annuncio che da sabato prossimo (27 ottobre) ricominceremo a sfogliare insieme la nostra Biblia pauperum.
Nelle prime settimane di quest'anno, dedicato da Benedetto XVI alla riscoperta della Fede, ho pensato di commentare i punti nodali del Credo attraverso delle opere d'arte, strutturando con queste anche dei brevi momenti di preghiera! Vi aspetto numerosi...

domenica 27 maggio 2012

Pentecoste (Veni Creator Spiritus)

Per la Pentecoste, così some per la Pasqua, ho chiesto ad un grande amico di aiutarci: Daniele Lauretta, anch'Egli studente di Teologia presso lo Studio Teologico "San Paolo" di Catania. Vista al sua grande e felice esperienza come direttore del coro "Verbum Domini" di Ispica, gli ho chiesto, per noi, di fare l'esegesi del...
Veni, creátor Spíritus,
mentes tuórum vísita,
imple supérna grátia,
quæ tu creásti péctora.

Qui díceris Paráclitus,
altíssimi donum Dei,
fons vivus, ignis, cáritas,
et spiritális únctio.

Tu septifórmis múnere,
dígitus patérnæ déxteræ,
tu rite promíssum Patris,
sermóne ditans gúttura.

Accénde lumen sénsibus,
infúnde amórem córdibus,
infírma nostri córporis
virtúte firmans pérpeti.

Hostem repéllas lóngius
pacémque dones prótinus;
ductóre sic te prǽvio
vitémus omne nóxium.

Per Te sciámus da Patrem
noscámus atque Fílium,
teque utriúsque Spíritum
credámus omni témpore.

Amen.
Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti,
riempi della tua grazia
i cuori che hai creato.

O dolce consolatore,
dono del Padre altissimo,
acqua viva, fuoco, amore,
santo crisma dell'anima.

Dito della mano di Dio,
promesso dal Salvatore,
irradia i tuoi sette doni,
suscita in noi la parola.

Sii luce all'intelletto,
fiamma ardente nel cuore;
sana le nostre ferite
col balsamo del tuo amore.

Difendici dal nemico,
reca in dono la pace,
la tua guida invincibile
ci preservi dal male.

Luce d'eterna sapienza,
svelaci il grande mistero
di Dio Padre e del Figlio
uniti in un solo Amore.

Amen
...Veni Creator Spiritus, un inno liturgico dedicato allo Spirito Santo. La sua origine è attribuita a Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza, del IX secolo. Come molti inni liturgici anche il Veni Creator Spiritus veniva cantato nelle sinassi liturgiche; la versione più conosciuta è quella gregoriana. Viene regolarmente cantato nell'ufficio delle Lodi e dei Vespri della festa di Pentecoste ma  può essere cantato in particolari avvenimenti solenni per invocare lo Spirito Santo, quali in occasione del conferimento del sacramento della confermazione, durante l'elezione del nuovo Pontefice, per la consacrazione dei vescovi e ovviamente per invocare lo Spirito Santo prima di una lectio divina. 

L'inno pneumatologico, come dice lo stesso testo, apre la mente e riempie il cuore di gioia; mente e cuore dominati oggi dal materialismo della post-modernità, plagiati e confusi da un informazione mediatica sganciata dall'etica professionale e da modelli di riferimenti alquanto discutibili... Il Signore Dio parla al nostro cuore e illumina la nostra mente attraverso il dono ineffabile dello Spirito Santo. Le immagini che accompagano questo dono “del Dio altissimo” sono l'acqua viva,  il fuoco, l'amore, il balsamo dell'anima. 
L'acqua è una realtà che penetra, feconda, purifica. In molti passi del Vangelo Gesù parla di un’acqua viva che zampilla e disseta in eterno: è lo Spirito Santo che rende vivi e chiarifica tutto quanto è torbido. Lo Spirito Santo scorre in noi come una sorgente che non si dissecca mai, come una fonte inesauribile di vita. 
Il fuoco brucia, purifica, trasforma. Lo Spirito Santo illumina le menti, illumina il nostro cammino, la realtà che ci circonda e ci fa vedere la bellezza delle cose, della creazione. Lo Spirito brucia, arde dentro di noi e bruciando, spazza via tutto ciò che è secco e ci purifica; questo dolce ardore ci riscalda e alimenta la fiamma dell'amore. É  la relazione di Amore per eccellenza tra il Padre e il Figlio, un fuoco di amore che li unisce in un dialogo incessante, un fuoco di amore del quale siamo partecipi per mezzo di Gesù Cristo, Dio fatto uomo. 
Lo Spirito Santo è il Consolatore, il Paraclito, Colui che abita nel nostro cuore, è al nostro fianco, ci accompagna, «combatte» per noi, prende le nostre difese e ci consola. 
É il balsamo dell'anima, un balsamo profumato che dona vigore all'anima e la conserva nel suo candore. 
L'inno continua e definisce lo Spirito Santo, settiforme per la moltepicità e la ricchezza dei doni che da esso scaturiscono: nella preghiera epicletica del sacramento della Confermazione viene chiesto per i cresimandi il dono settiforme dello Spirito, secondo l'elenco riportato nel libro del profeta Isaia (11,2): "spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e spirito del tuo santo timore”. 
Lo Spirito invocato è il dito della destra di Dio, il dito che ha creato l'universo, che compie prodigi; è quel dono promesso da Dio nella storia della salvezza. L'inno continua con le suppliche e le invocazioni ma termina proprio con la “richiesta” più importante: quella di poter contemplare la presenza di Dio, Uno e Trino nella nostra vita; lo Spirito Santo ci permette di riconoscere il Padre e scoprire il Figlio, ci permette di intravedere il Mistero Trinitario. Attraverso lo Spirito Santo, veniamo raggiunti dalla Grazia divina, quella condiscendenza d'amore che prende le mosse dall' inabitazione della Trinità e raggiunge l'uomo.
Dal punto di vista prettamente musicale occorre fare riferimento proprio al canto gregoriano, alla sua storia e alle sue caratteristiche liturgico-musicali. Il canto gregoriano è un genere musicale vocale, monodico e liturgico, elaborato in Occidente intorno al VII secolo e cantato ancora oggi. É riconosciuto dalla Chiesa cattolica come “canto proprio della liturgia romana”. Analizzando brevemente la partitura del “Veni Creator” è possibile cogliere il sistema melodico proprio del gregoriano: Si tratta appunto di un canto vocale e monodico (a una sola voce): in assenza di accompagnamento strumentale la purezza della melodia monodica guida lo spirito al silenzio e alla contemplazione del mistero divino. La musica gregoriana è una musica modale scritta in scale di suoni molto particolari che servono per suscitare una varietà di sentimenti, come raccoglimento, allegria, tristezza, serenità; è basata su scale dette appunto "modali" che rendono il canto più arcaico e solenne. E anche diatonica, in quanto basata su una scala musicale formata da sette, delle dodici note che compongono l'intera scala cromatica. La melodia dell'inno è semplice e sillabica o nel caso di molti inni è melismatica (quando ad una sillaba corrispondono vari suoni). Ma non bisogna assolutamente pensare che il canto gregoriano non sia ritmico; al contrario, esso possiede una ritmica che a differenza di quella moderna non è cadenzata ma segue e rispetta l'andamento del testo o si lascia trasportare dall'enfasi prodotta dalla melodia stessa. Nel Veni Creator gregoriano troviamo la presenza di numerosi vocalizzi che non dobbiamo però confondere con l'atteggiamento virtuosistico che appartiene all'età romantica. I vocalizzi gregoriani fanno si che i versi del canto siano partecipati, slanciati all'inizio e riposati al respiro; le parole che vengono cantate devono penetrare nell'animo, devono risuonare nel cuore e nella mente. C'è tutta una modalità particolare per cantare il gregoriano: le vocali chiuse, le note sostenute nelle chiusure. Ma ciò che più conta è proprio l'atteggiamento del cantore durante l'esecuzione: un atteggiamento interiore, spirituale, ma anche uno esteriore; il linguaggio corporale riflette l'atteggiamento interiore. L'omogeneità del suono è fondamentale: il cantare all'unisono, un ascoltarsi costante di sè con gli altri, un modo di cantare concentrato ma soprattutto moderato. Il Veni Creator, cantato nel rispetto della tradizione gregoriana e dei metodi di canto sopracitati, diventa davvero preghiera; lo Spirito Santo viene invocato dalla Chiesa che canta all'unisono e manifesta la sua realtà di comunione; lo Spirito che ci fa “UNO” raggiunge l'uomo che lo invoca e il canto diventa apertura e accoglienza del dono della Grazia.

venerdì 4 maggio 2012

Io sono la vite (Gv 15, 1-8)


Il Contesto
Ci troviamo nel cuore del tempo pasquale, esattamente a metà del nostro cammino verso la Pentecoste in compagnia del Risorto. La discesa dello Spirito Santo è il compimento pieno della Pasqua, infatti, dopo essere stati salvati da Cristo ed aver ricevuto lo Spirito Santo siamo inseriti a pieno titolo nella relazione col Padre.

                                                                 L’evento
Oggi Gesù si racconta ai suoi, dice qualcosa di sé stesso definendosi come vera Vite. Quello della vite è un racconto molto antico ed è narrato numerose volte nell’antico Testamento,  i protagonisti solitamente sono sempre gli stessi: la vigna (il popolo), il vignaiolo (Dio) e i frutti che a volte tardano a  venire.
Ma questa volta le cose cambiano un po’!
Non si parla più di vigna ma di vite (Cristo).
Non si parla ancora dei frutti ma di tralci (discepoli).
Solo il vignaiolo è sempre lo stesso: il Padre.

            L’opera d’arte
Gesù vera vite, Icona russa
Cristo è la Vite curata dal Padre, in cui scorre la linfa dello Spirito, e questa può essere trasmessa ai tralci solo se essi rimangono attaccati alla Vite. Per portare frutto è necessario l’essere in relazione con Cristo, altrimenti si diventa sterili come un ramo secco! Che grande lezione ci dona il nostro maestro:
Io sono la vite, voi i tralci. 
Chi rimane in me porta molto frutto.

Ecco il significato di questa bellissima icona, che ho trovato su internet navigando qua e la, e anzi chiedo scusa all’autore/autrice di origine russa, di cui non sono riuscito a scoprire il nome. Non sono necessari commenti straordinari, le parole di Gesù sono così immediate e concrete:
Io sono la vite, voi i tralci. 
Chi rimane in me porta molto frutto.
La nostra immaginazione ci fa gustare la ricchezza di questa immagine, e nel momento in cui i nostri occhi si posano sull’immagine, essa diventa semplicemente l’espressione grafica di ciò che la Parola ha avuto la forza di evocare prima di tutto nel nostro cuore.
Ma che cosa vuol dire rimanere in Cristo?  
La risposta sembra facile, rimanere in Cristo vuol dire ascoltare e mettere in pratica la sua Parola.
Ascolto e azione, come due canali: uno da cui attingere la natura di Dio e uno in cui riversarla. Io non saprei dirvi come rimanere innestati a Cristo, però so di certo che dove è Carità e Amore, lì c’è Dio! La capacità di far germogliare gemme d’Amore è il segno inconfondibile che la linfa dell’amore divino scorre in noi!
La funzione dell’Amore nel corpo di Cristo è identica a quella della linfa nella pianta, essa infatti è essenziale, poiché distribuisce gli elementi vitali alle varie ramificazioni.
Come si fa a restare attaccati alla vera Vite?
Niente e nessuno ci potranno mai separare dall’amore di Dio (S. Paolo) e su questo non ci piove, eppure a volte ci sentiamo aridi, incapaci di slanci spirituali, in questi momenti è lecito pensare a due cose:
Dio ci sta mettendo alla prova!
Ma la potatura di Dio, nonostante sia dolorosa e a volte ci sorprende con avvenimenti inspiegabili e drammatici, è finalizzata sempre e solo al bene. Dio non è un imprenditore che pota solo per avere più frutti, ma è il Vignaiolo che ama e cura la Sua vigna, per questo taglia tutto ciò che è superfluo. L’esempio del taglio è calzante: la potatura estiva della vigna serve infatti ad eliminare quei tralci che pur essendo attaccati alla vigna non producono frutto, ma anzi sottraggono sostanze nutritive alla pianta.
Infine, l’altra cosa che possiamo pensare è che la nostra aridità derivi da qualche altra causa, una specie di malattia!
Un esempio di malattia dell’anima molto diffusa è lo s-coramento, ossia la caduta del nostro animo nelle bassezze del senso di colpa, nella perdita di fiducia in noi stessi, nella convinzione che Dio non potrà mai amarmi così come sono… Questa si che è una malattia! Questa non è una potatura ma un vero e proprio cancro! Lo sapete in cosa consiste la malattia, nel pensare che la Vite sia più piccola del tralcio, che il ramo più piccolo dell’Albero? Amici miei, Dio ci ma come una madre i suoi bambini e anche se il vostro cuore continuasse a rimproverarvi qualcosa non temete, Dio è più grande del vostro cuore!

venerdì 27 aprile 2012

Io sono il buon Pastore (Gv 10, 11-18)


            Il Contesto
Oramai non vi sono più dubbi: Le donne lo hanno visto, i discepoli hanno mangiato con lui, Tommaso lo ha toccato… Si! Il Signore Gesù è vivo!
La liturgia da questa domenica in poi non si preoccupa più di provare la verità del Risorto o di narrarne le apparizioni, ma le pagine del Vangelo domenicale ci presenteranno, fino all’Ascensione, delle immagini (il buon pastore, la vite vera, …) che hanno il compito di raccontare il grande mistero del Risorto e della sua Chiesa.

                                                                 L’evento
Gesù si presenta, nel brano precedente, come porta dell’ovile e poi, nel brano che ascolteremo oggi, come buon pastore, come colui che si prende cura e offre la propria vita per le proprie pecorelle. Il nostro ricordo si volge spontaneamente alla parabola della pecorella smarrita, ove Gesù è presentato come quel pastore premuroso verso ognuna delle sue pecore, che è disposto a rincorrerle ovunque! Però oggi il vangelo ci presenta un’immagine ancora più forte, Gesù non è soltanto un pastore premuroso, ma è il buon pastore! Dobbiamo sapere che per buono non si intende solo  onesto e retto ma molto di più, infatti questa parola traduce il greco kalòs, che significa: vero, bello, giusto, buono…  Gesù è presentato come il pastore esemplare, colui che è disposto a deporre la propria vita, la cosa più preziosa, per salvare il suo gregge, tutto il suo gregge (vicini e lontani).

            L’opera d’arte
M.I. Rupnik, Discesa agli inferi
Il brano del Vangelo di oggi, ci parla di due figure: il buon pastore e il mercenario. Queste figure così lontane tra di loro mi hanno portato a scegliere, per commentare questo brano, due immagini, due mosaici di M.I. Rupnik che raffigurano entrambi la Discesa agli inferi.
In una prima immagine, veramente eloquente, Gesù è raffigurato come il pastore che scende nelle tenebre della morte, per andare a recuperare il primo uomo. Il Risorto depone la sua vita e si carica sulle spalle la prima pecorella smarrita, colui che ha tristemente inaugurato il guinzaglio del peccato, Adamo e a lui  ridà la bellezza perduta, come è suggerito dal mosaico attraverso la presentazione in simmetria dei volti di Cristo e Adamo. Il primo uomo del peccato e il primo uomo della grazia si guardano e si scorgono somiglianti: uno è il pastore che aveva portato l’umanità fuori dall’Eden l’altro è il Pastore che la riconduce in Paradiso, uno è la pecorella smarrita l’altro è l’Agnello che ha redento tutto il gregge.
Però, come vi dicevo prima, il brano evangelico di oggi oltre al lato misericordioso e premuroso, mette in risalto anche un’altra caratteristica del Cristo-Pastore, ossia il suo essere  vero Pastore e non mercenario! Il mercenario, infatti, non è legato affettivamente alle pecore che custodisce, e se i conti non tornavano in alcuni casi era anche autorizzato ad abbandonare il gregge (per esempio al sopraggiungere di un animale pericoloso), d’altronde chi sarebbe stato disposto a lottare per un gregge non suo?
M.I. Rupnik, Discesa agli inferi
Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello, l’autore della vita era morto ma ora è vivo e trionfa! E la seconda immagine narra appunto di questa battaglia, Cristo ha lottato contro la morte e contro l’inferno e, come fa vedere benissimo questo mosaico, li ha lasciati a bocca aperta!
Vedendo l’immagine contempliamo la vittoria di Gesù, Egli con la sua croce tiene aperta la bocca degli inferi, e ci libera dalla morsa della morte. Eravamo già come prede tra le fauci delle tenebre ma Cristo ci ha liberati e ci ha chiamati con sé!
Spiegare tutta la ricchezza di questa pagina evangelica è molto complesso, lascio dunque ai colori, alle tessere e alle linee di M.I. Rupnik, le parole rischiano di suonare mute al nostro intelletto, lasciamo invece che si lasci conquistare dall’eloquenza delle immagini che tratteggiano il mistero della Pasqua di Cristo e anche della nostra.

giovedì 19 aprile 2012

Il Signore è vivo (Lc 24, 35-48)


         Il Contesto
Il tempo pasquale, che stiamo vivendo, ha sostituito quello quaresimale. La gioia della Pasqua ha rimpiazzato la penitenza della Quaresima. Il silenzio ha lasciato spazio al canto dell’Alleluia!
Nel Vangelo di questa III Domenica di Pasqua (chiamata così perché la celebrazione di quest’ultima dura 50 giorni e dunque tutte le domeniche di questo tempo sono dette di Pasqua) l’ambientazione e i personaggi sono gli stessi del vangelo che è stato letto la sera della Domenica di Pasqua,  notiamo una continuità anzi un’identità tra la Domenica e le domeniche di Pasqua, siamo nell’eterno presente dell’esperienza del Risorto…

                                                              L’evento
…Sono trascorsi tre giorni dalla morte di Gesù, i discepoli da Emmaus ritornano di corsa dagli apostoli riuniti nel Cenacolo, corrono per comunicare una notizia sensazionale: Gesù è vivo! Noi lo abbiamo incontrato! E nel momento stesso in cui essi testimoniano l’incontro con il Signore agli Apostoli, il Risorto è presente in mezzo a loro.
Sarebbe come dire che nel momento in cui professiamo al nostra fede nella e con la Chiesa godiamo della presenza piena e viva di Cristo risorto, ma fuori da queste condizioni può esistere solamente un’esperienza fugace e momentanea, Gesù scompare alla vista dei discepoli dopo aver spezzato il pane.
Dentro al Cenacolo, invece, Egli si mostra in carne e ossa, come manifestazione finalmente completa, dell’amore di Dio che si è incarnato, ha patito ed è risorto per noi! Di questo siamo testimoni.

         L’opera d’arte
Per questa domenica ho pensato di proporvi un’icona-sintesi dei brani ascoltati fino ad oggi, un’immagine in cui convergono contemporaneamente le apparizioni del Risorto (dunque la concretezza della Resurrezione) e l’esperienza che ne fa al Chiesa. Il dipinto che ho scelto è l’Incredulità di San Tommaso di Michelangelo Merisi detto Caravaggio.
Proprio come oggi il Risorto appare ai suoi discepoli nel cenacolo il giorno dopo il Sabato. Nonostante le porte chiuse Egli riesce ad entrare, la tentazione sarebbe quella di dire che è un fantasma, un puro spirito, ma non è così!
Uno spirito non ha carne ed ossa, Lui invece si!
Uno spirito non può mangiare, Lui si!
Uno spirito non può avere delle piaghe, Lui c’è l’ha!
Uno spirito solitamente porta con se l’angoscia del passato, del ricordo…
uno spirito ritorna sempre per tormentare la nostra memoria, ma Cristo no!
Egli porta con sé non le catene del rimorso ma il dono della Pace!
La risurrezione ha trasfigurato il corpo del Signore, essa restaura i corpi (del Signore e anche i nostri) e li riporta alla loro condizione originale, li restituisce allo stato per cui erano stati plasmati dal Creatore.
Caravaggio, Incredulità di San Tommaso, Bildergalerie
La verità del Risorto è tangibile e concreta; Tommaso, in questa splendida tela del Caravaggio, in maniera impressionante ha l’ardire di entrare in contatto con questa verità, egli è il prototipo di ogni incredulo che vuole toccare il Signore per credere. A questo episodio guardiamo spesso con occhi di sufficienza, di commiserazione o peggio ancora di disprezzo, ma i nostri non sono gli stessi occhi con cui Gesù guarda Tommaso (e in lui tutti gli scettici della storia), Egli ha uno sguardo di misericordia. Gesù non ha paura di porgere le sue mani e il suo costato alle dita dell’incertezza, Dio non teme di essere sbirciato e sfiorato dalle sue creature anzi, se guardiamo bene la tela, è Lui stesso che guida la mano di Tommaso dentro il suo costato, dicendogli…

         …per te che mi cerchi
         sappi che questa è al porta!
         Il mio fianco squarciato
         è la fenditura che ti lascia penetrare
         nella natura più profonda di Dio
         e nel perché più grande dell’uomo.

Fare esperienza del Risorto. Conoscete desiderio più grande per i cristiani di ogni tempo? Chi non ha mai desiderato di fondare la propria fede sull’esperienza diretta di Gesù risorto? E allora sia!
Anche tu…
         …come i discepoli di Emmaus,
         come gli Apostoli,
         come Tommaso
puoi incontrare il Risorto…
         …nel pane spezzato,
         nella vita comune con i fratelli,
         nelle cicatrici del Crocifisso
ossia…
         …nella celebrazione Eucaristica,
         nella vita della Chiesa
         e nelle “piaghe” di ogni uomo.

venerdì 30 marzo 2012

Conclusione


Al termine di questo percorso, compiuto in compagnia di numerosi poeti e soprattutto delle loro più recondite ricerche ed aspirazioni, che certamente ci hanno arricchiti di un’esperienza umana trasfigurata dalla Luce, vogliamo riportare e commentare la poesia di uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, del quale si stanno finalmente in questi ultimi anni moltiplicando gli studi, e verso il quale invitiamo i lettori a portare parecchia attenzione. Si tratta di Clemente Rebora, il cui itinerario di vita esprime ancor più chiaramente ciò che attraverso i versi ha inteso esprimere e rivelare:

         Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
         nell’arcana sorte
         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!
         Pur da una Madre sola, che è divina,
         alla luce si vien felicemente:
         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.
                        (CLEMENTE REBORA, Poesia e santità, da Poesie (1913-1957))

Prima chiara consapevolezza: il creato non segue una linea cieca o casuale, né un cammino di progressivo deterioramento, bensì un’ascesi in Cristo al Padre. Ora, come spiegare ad occhi poco avvezzi alla contemplazione il senso di un’ascesi che coinvolge il creato intero? Significherebbe ammettere che segue un disegno provvidenziale, che è stato già pensato da un Altro, che non è in nostro dominio, ma che è indissolubilmente legato a noi umani secondo un’arcana sorte. Ciò contrasta molto con una certa mentalità diffusa oggi. Poi

         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!

Torniamo nuovamente a quel realismo che abbiamo avuto modo di scoprire in altri autori. Lo ribadiamo: per vivere in pienezza, si deve accogliere l’aspetto più tragico della vita stessa, quel lento morire che portiamo addosso e dal quale tentiamo in ogni modo fuggire. Eppure, si tratta di un moto finalizzato ad una vita più grande: tutto è doglia del parto, cioè, quanto morir perché la vita nasca! Non è mai un soffrire vano, mai un’attesa senza approdo: tende l’esistenza ad un compimento per giungere al quale occorre però morire. È una legge ineludibile ed alla quale dobbiamo necessariamente adeguarci, pena una morte prematura e certamente più sofferta… E per morire, non abbiamo altro da fare che stringerci a Cristo, perché solo in Lui ascendiamo al Padre. Soltanto nell’accoglienza di quella forza e di quell’amore che si sprigionano dal suo volontario soffrire per noi, ritroviamo il senso delle cose che appaiono cadere, perire, sparire, come anche la risposta ai dolori più inspiegabili, sordi, solitari. Nella sua obbedienza alla volontà del Padre, occorre unire la nostra, nel coraggio di saperci figli amati da Dio:

         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.

I poeti ci hanno mostrato come è possibile trasformare il pianto amoroso della vita in anelito poetico, eppure questo non basta, è soltanto una tappa. Ci hanno, in realtà, indicato come il canto della vita si compie pienamente soltanto con e nell’amore del Signore.
Buona Pasqua a tutti!

IN RESURRECTIONE DOMINI - Pasqua di Resurrezione


Meditare sul mattino di Pasqua significa portare nel cuore il brano del Vangelo di Giovanni su Maria di Magdala, sull’incontro misterioso con il Risorto nella sua prima apparizione, sull’annuncio che ne seguirà. Far riverberare persino i suoni delle sacre parole nelle orecchie potrà costituire una chiave per aprire gli scrigni riposti nei testi delle poesie che seguono.
Quando si incontra la Resurrezione, non si può non pensare a ciò da cui ha origine e di cui è il compimento: la Creazione. È per questo che come sinonimo si usa spesso quello di Nuova Creazione. Nell’uomo creato da Dio, opera perfetta come perfetto è il Creatore, si è misteriosamente introdotto qualcosa che ne ha perturbato l’ordine, l’armonia e così, da una pienezza di relazione, la vita si è trasformata in una continua mancanza, in un sofferto limite, in una pesante fragilità da portare. Pasolini esprimeva così questo senso di solitudine, all’interno di una sua visione “laica” della creazione:

         Acque, cieli e terre
         si meravigliano
         fuori della morta mente
         dell’uomo nato per ultimo.

Il poeta immagina l’uomo sotto le spoglie della sola ragione, e arriva a definirla morta. Tralasciando la forzatura di un Dio vivo che creerebbe una entità morta, possiamo però tranquillamente accogliere la provocazione, perché di questo in fondo si tratta, di pensare morta una ragione non ancora incarnata. È una riflessione molto interessante, perché sembra voler invitare ad un pensare che sia un tutt’uno con l’esistere, con la vita, con il creato circostante. Non ancora rassegnato, il poeta continua:

         “Io” gridava “Io”
         legato a quel pensiero.
         “Io” gemeva “Io”
         chiuso in quella dura scorza.

I versi ci svelano quindi un “io” legato a quel pensiero. Ma un “io” che chiude in una dura scorza l’essenza dell’uomo, lasciandolo gemere, gridare disperato. Potremmo pensare all’“io” cartesiano, a questa invenzione della modernità che certamente ha dato luogo a tanti errori filosofici, ma soprattutto ha generato un soggettivismo ed un relativismo i cui effetti risentiamo ai giorni nostri. Se così fosse, il grido e il gemito di quest’uomo si ergerebbero a simbolo dell’umanità degli ultimi secoli che giace sofferente in attesa di un Liberatore che possa farlo uscire dalla prigione dell’“io”, per restituirlo a quell’essere relazionale nel quale è stato originariamente concepito. Difatti:

         Eravamo tutti morti,
         senza un affetto nel cuore
         e non un canto nelle orecchie,
         poveri morti sconfortati.

         “Io” gridavamo “Io”
         nel buio di quella parola
         senza suono, senza canto
         “Io” gemevamo “Io”.

Ma ecco che interviene, nell’immaginario del poeta, Dio con la sua potenza di parola, che è al contempo amore che si china sulla sua amata creatura:

         DIO DICE
         “Carne” mormora Dio.
         L’uomo cade nel corpo.
         Vede la carne, la sente,
         tocca la carne calda.

Quel pensiero comincia finalmente a rivestirsi di una carne capace di restituirgli sostanza, sensibilità, calore. E riprende:

         LE PAROLE
         “Terra” mormora Dio.
         Subito nasce la terra
         e sostiene l’uomo disteso,
         silenziosa, sul suo seno.

         A UNA A UNA
         “Cielo” e la pioggia e i raggi
         gli nascono dagli occhi,
         illuminando un’altezza
         angosciata e silente.

Adesso l’uomo può disporre di una terra che lo sostiene, ove può persino trovare riposo sul suo seno silenzioso. È una immagine molto efficace che ci restituisce il legame ancestrale dell’uomo con tutta la creazione. Tale legame è così profondo, che pioggia e raggi nascono persino dagli occhi dell’uomo, in risposta, in realtà, ad un’angoscia provocata dalla silente altezza del cielo che lo sovrasta. Qui è possibile rilevare tutta l’angoscia dell’uomo contemporaneo dinanzi al problema di Dio: anziché scorgere in pioggia e raggi un riflesso della bellezza divina, li vede come proprie produzioni per coprire la distanza incolmabile, la differenza irriducibile con il suo Creatore. Sarà perché forse gli riesce difficile accettare una dipendenza assoluta da un Qualcuno infinitamente più grande di lui?

         E L’UOMO VIVE
         “Erba” e trema verde
         sulle prode, sui cigli.
         “Uccello” e vola e canta
         una piccola piuma d’oro.
                        (P.P. PASOLINI, Li peraulis o La creatiòn, da Poesie disperse, 1946)

In questi versi finali, il poeta sembra approdare comunque ad una significativa consapevolezza: l’uomo, al soffio di Dio, vive in armonia con la natura circostante, sino a tremare con l’erba, a volare e cantare come un uccello. C’è però qualcosa che risalta: il verso finale svela un soggetto diverso da quello che era l’uomo fino a poco prima. Dov’è finito l’uomo? E cosa rappresenta questa piccola piuma d’oro? E se, forse, l’uomo si sia in realtà trasformato in essa? Questa ipotesi non sembra poi così inverosimile; in fondo, a pensarci, la vulnerabilità della creatura umana può benissimo essere simboleggiata da una piccola piuma, ma la sua preziosità, diremmo anche divinità, è certamente quella coperta d’oro con cui Dio ha voluto cingerlo sin dall’eternità. Si tratta, per l’uomo, di prenderne consapevolezza (non a caso, il poeta ha creato una sorta di acrostico: si leggano le parole in maiuscolo a capo delle ultime quartine e si coglierà un ulteriore senso della narrazione poetica). Ed è così che ci inoltriamo nel cuore del mistero della Resurrezione. Un mistero che inizia con un’attesa (eco di Maria di Magdala al sepolcro):

         Solo l’amare, solo il conoscere
         conta, non l’aver amato,
         non l’aver conosciuto. Dà angoscia

         il vivere di un consumato
         amore. L’anima non cresce più.
                        (P.P. PASOLINI, Il pianto della scavatrice, da Le ceneri di Gramsci, 1957)

L’attesa può infatti essere caratterizzata da una stasi, da un pessimismo diffuso, da un atteggiamento rinunciatario. A volte ci si ancora troppo ai ricordi, si rimpiange un tempo d’oro non più tornato, eppure siamo sempre noi, vivi sull’onda del tempo presente. Ancora una volta, Pasolini ci invita calorosamente a non arrestarci nel cammino, davanti all’angoscia che prende per un amore che non si vive più.

         L’anima non cresce più

Ed è terribilmente vero! Quanto più dovremmo, invece, puntare sulla conoscenza e sull’amore nel presente, l’unico tempo che ci è dato di vivere… L’attesa, seppur dolorosa per le ferite del passato, potrebbe anche tramutarsi in preghiera:

         Perdimi, Signore, ché non oda
         gli anni sommersi taciti spogliarmi,
         sì che cangi la pena in moto aperto:
         curva minore
         del vivere m’avanza.

In tal modo, consapevole della impossibilità dell’uomo di mutare certi pesi in gioie, Quasimodo si accosta a Dio perché

         cangi la pena in moto aperto

meravigliosa espressione che ci restituisce quell’insopprimibile desiderio dentro il cuore umano che anela alle più alte forme di vita, nonostante avanzi un tratto di vita forse discendente, comunque umiliante:

         E fammi vento che naviga felice,
         o seme d’orzo o lebbra
         che sé esprima in pieno divenire.
         E sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Ci si sente inondati di meraviglia in questa poesia/preghiera a Dio, perché

         sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Si presagisce come la pienezza è nell’amore verso Dio, ma è un amore difficile. Allora il poeta chiede, a Colui che sembra essere l’oggetto del suo amore e che si rivela esserne il soggetto, di rendergli facile questo amore sia nell’erba che tende con le sue cime alla luce, sia nella piaga che buca la carne. Quanto realismo in questi esili e intensissimi versi! L’uomo è fatto così: di slanci altissimi e di terribili cadute, e può cucire entrambi e ritrovare senso soltanto attraverso l’amore di Dio.
I versi che seguono continuano questo cammino di ascesi in modo memorabile:

         Io tento una vita:
         ognuno si scalza e vacilla
         in ricerca.

         Ancora mi lasci: son solo
         nell’ombra che in sera si spande,
         né valico s’apre al dolce
         sfociare del sangue.
                        (S. QUASIMODO, Curva minore, da Acque e terre, 1920-1929)

Forse meriterebbero soltanto silenzio, versi come questi, rarissimi nella poesia contemporanea. Qui il confine con la mistica è davvero labile. Si ode la grande fatica dell’uomo, identificatosi con tutta l’umanità, nella vacillante ricerca di risposte ultime e appaganti, ovvero di Dio. Un Dio che si percepisce come Qualcuno che ancora una volta si allontana, come nelle “notti” dei grandi mistici di ogni latitudine, lasciando completamente soli nell’ombra del giorno che di sera si fa ancor più cupa, mentre il sangue del proprio dolore, reso dolce da questa attesa colma di preghiera, non riesce ancora a trovare il giusto valico ove sfociare, come ad esprimere l’anelito formidabile di chi non si è ancora arreso a trovare un senso a tante lacrime di sacrificio.
Dopo tanto peregrinare, tra grida, angosce, attese di pianto, ecco però una visione purificata, quella di una nuova vita, annunciata dall’intramontabile Giovanni Pascoli:

         […] Ti vidi, o giorno che su l’infinita
         via delle nebulose ultime e sole
                  appari. M’apparisti, o vita
                  che splendi quando è morto il sole.

         Un alito era, solo, per il miro
         gurge, di luce: un alito disperso
                  da un solo tacito respiro
                  e che velava l’universo:

         come se fosse, là, per un istante,
         immobile sul sonno e su l’oblio
                  di tutti, nella sua raggiante
                  incomprensibilità, Dio!
                        (G. PASCOLI, L’aurora boreale, da Odi e Inni, 1907)

Non ci soffermiamo sui versi, il cui significato appare chiaro, tuttavia fissiamo l’attenzione sulle ultime parole: come fosse là, per un istante, immobile… nella sua raggiante incomprensibilità, Dio. Ci portano sul grande baratro del mattino di Pasqua, quando misteriosamente, in un alito disperso, in un solo tacito respiro, nel quale racchiudiamo il palpito del mondo, riusciamo a cogliere con l’intuizione la raggiante incomprensibilità di Dio! Davvero è l’inizio di una nuova vita di fede…

         Tu verrai e libererai nella luce
         queste finestre sbarrate di luce,
         ed io, polvere, ritornerò nella luce.
         Ti chiamerò: - Chi come Dio?

         E mi farai vedere un fiume
         delle mie canzoni perdute.

         Ora, mi dirai, non devi temere più:
         Israele è il tuo cuore,
         tutte le creature sono risorte.
         Aprono le braccia colme di luce.
                        (ELIO FIORE, The Lord of Souls, da In purissimo azzurro, 1985)