venerdì 30 marzo 2012

IN RESURRECTIONE DOMINI - Pasqua di Resurrezione


Meditare sul mattino di Pasqua significa portare nel cuore il brano del Vangelo di Giovanni su Maria di Magdala, sull’incontro misterioso con il Risorto nella sua prima apparizione, sull’annuncio che ne seguirà. Far riverberare persino i suoni delle sacre parole nelle orecchie potrà costituire una chiave per aprire gli scrigni riposti nei testi delle poesie che seguono.
Quando si incontra la Resurrezione, non si può non pensare a ciò da cui ha origine e di cui è il compimento: la Creazione. È per questo che come sinonimo si usa spesso quello di Nuova Creazione. Nell’uomo creato da Dio, opera perfetta come perfetto è il Creatore, si è misteriosamente introdotto qualcosa che ne ha perturbato l’ordine, l’armonia e così, da una pienezza di relazione, la vita si è trasformata in una continua mancanza, in un sofferto limite, in una pesante fragilità da portare. Pasolini esprimeva così questo senso di solitudine, all’interno di una sua visione “laica” della creazione:

         Acque, cieli e terre
         si meravigliano
         fuori della morta mente
         dell’uomo nato per ultimo.

Il poeta immagina l’uomo sotto le spoglie della sola ragione, e arriva a definirla morta. Tralasciando la forzatura di un Dio vivo che creerebbe una entità morta, possiamo però tranquillamente accogliere la provocazione, perché di questo in fondo si tratta, di pensare morta una ragione non ancora incarnata. È una riflessione molto interessante, perché sembra voler invitare ad un pensare che sia un tutt’uno con l’esistere, con la vita, con il creato circostante. Non ancora rassegnato, il poeta continua:

         “Io” gridava “Io”
         legato a quel pensiero.
         “Io” gemeva “Io”
         chiuso in quella dura scorza.

I versi ci svelano quindi un “io” legato a quel pensiero. Ma un “io” che chiude in una dura scorza l’essenza dell’uomo, lasciandolo gemere, gridare disperato. Potremmo pensare all’“io” cartesiano, a questa invenzione della modernità che certamente ha dato luogo a tanti errori filosofici, ma soprattutto ha generato un soggettivismo ed un relativismo i cui effetti risentiamo ai giorni nostri. Se così fosse, il grido e il gemito di quest’uomo si ergerebbero a simbolo dell’umanità degli ultimi secoli che giace sofferente in attesa di un Liberatore che possa farlo uscire dalla prigione dell’“io”, per restituirlo a quell’essere relazionale nel quale è stato originariamente concepito. Difatti:

         Eravamo tutti morti,
         senza un affetto nel cuore
         e non un canto nelle orecchie,
         poveri morti sconfortati.

         “Io” gridavamo “Io”
         nel buio di quella parola
         senza suono, senza canto
         “Io” gemevamo “Io”.

Ma ecco che interviene, nell’immaginario del poeta, Dio con la sua potenza di parola, che è al contempo amore che si china sulla sua amata creatura:

         DIO DICE
         “Carne” mormora Dio.
         L’uomo cade nel corpo.
         Vede la carne, la sente,
         tocca la carne calda.

Quel pensiero comincia finalmente a rivestirsi di una carne capace di restituirgli sostanza, sensibilità, calore. E riprende:

         LE PAROLE
         “Terra” mormora Dio.
         Subito nasce la terra
         e sostiene l’uomo disteso,
         silenziosa, sul suo seno.

         A UNA A UNA
         “Cielo” e la pioggia e i raggi
         gli nascono dagli occhi,
         illuminando un’altezza
         angosciata e silente.

Adesso l’uomo può disporre di una terra che lo sostiene, ove può persino trovare riposo sul suo seno silenzioso. È una immagine molto efficace che ci restituisce il legame ancestrale dell’uomo con tutta la creazione. Tale legame è così profondo, che pioggia e raggi nascono persino dagli occhi dell’uomo, in risposta, in realtà, ad un’angoscia provocata dalla silente altezza del cielo che lo sovrasta. Qui è possibile rilevare tutta l’angoscia dell’uomo contemporaneo dinanzi al problema di Dio: anziché scorgere in pioggia e raggi un riflesso della bellezza divina, li vede come proprie produzioni per coprire la distanza incolmabile, la differenza irriducibile con il suo Creatore. Sarà perché forse gli riesce difficile accettare una dipendenza assoluta da un Qualcuno infinitamente più grande di lui?

         E L’UOMO VIVE
         “Erba” e trema verde
         sulle prode, sui cigli.
         “Uccello” e vola e canta
         una piccola piuma d’oro.
                        (P.P. PASOLINI, Li peraulis o La creatiòn, da Poesie disperse, 1946)

In questi versi finali, il poeta sembra approdare comunque ad una significativa consapevolezza: l’uomo, al soffio di Dio, vive in armonia con la natura circostante, sino a tremare con l’erba, a volare e cantare come un uccello. C’è però qualcosa che risalta: il verso finale svela un soggetto diverso da quello che era l’uomo fino a poco prima. Dov’è finito l’uomo? E cosa rappresenta questa piccola piuma d’oro? E se, forse, l’uomo si sia in realtà trasformato in essa? Questa ipotesi non sembra poi così inverosimile; in fondo, a pensarci, la vulnerabilità della creatura umana può benissimo essere simboleggiata da una piccola piuma, ma la sua preziosità, diremmo anche divinità, è certamente quella coperta d’oro con cui Dio ha voluto cingerlo sin dall’eternità. Si tratta, per l’uomo, di prenderne consapevolezza (non a caso, il poeta ha creato una sorta di acrostico: si leggano le parole in maiuscolo a capo delle ultime quartine e si coglierà un ulteriore senso della narrazione poetica). Ed è così che ci inoltriamo nel cuore del mistero della Resurrezione. Un mistero che inizia con un’attesa (eco di Maria di Magdala al sepolcro):

         Solo l’amare, solo il conoscere
         conta, non l’aver amato,
         non l’aver conosciuto. Dà angoscia

         il vivere di un consumato
         amore. L’anima non cresce più.
                        (P.P. PASOLINI, Il pianto della scavatrice, da Le ceneri di Gramsci, 1957)

L’attesa può infatti essere caratterizzata da una stasi, da un pessimismo diffuso, da un atteggiamento rinunciatario. A volte ci si ancora troppo ai ricordi, si rimpiange un tempo d’oro non più tornato, eppure siamo sempre noi, vivi sull’onda del tempo presente. Ancora una volta, Pasolini ci invita calorosamente a non arrestarci nel cammino, davanti all’angoscia che prende per un amore che non si vive più.

         L’anima non cresce più

Ed è terribilmente vero! Quanto più dovremmo, invece, puntare sulla conoscenza e sull’amore nel presente, l’unico tempo che ci è dato di vivere… L’attesa, seppur dolorosa per le ferite del passato, potrebbe anche tramutarsi in preghiera:

         Perdimi, Signore, ché non oda
         gli anni sommersi taciti spogliarmi,
         sì che cangi la pena in moto aperto:
         curva minore
         del vivere m’avanza.

In tal modo, consapevole della impossibilità dell’uomo di mutare certi pesi in gioie, Quasimodo si accosta a Dio perché

         cangi la pena in moto aperto

meravigliosa espressione che ci restituisce quell’insopprimibile desiderio dentro il cuore umano che anela alle più alte forme di vita, nonostante avanzi un tratto di vita forse discendente, comunque umiliante:

         E fammi vento che naviga felice,
         o seme d’orzo o lebbra
         che sé esprima in pieno divenire.
         E sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Ci si sente inondati di meraviglia in questa poesia/preghiera a Dio, perché

         sia facile amarti
         in erba che accima alla luce,
         in piaga che buca la carne.

Si presagisce come la pienezza è nell’amore verso Dio, ma è un amore difficile. Allora il poeta chiede, a Colui che sembra essere l’oggetto del suo amore e che si rivela esserne il soggetto, di rendergli facile questo amore sia nell’erba che tende con le sue cime alla luce, sia nella piaga che buca la carne. Quanto realismo in questi esili e intensissimi versi! L’uomo è fatto così: di slanci altissimi e di terribili cadute, e può cucire entrambi e ritrovare senso soltanto attraverso l’amore di Dio.
I versi che seguono continuano questo cammino di ascesi in modo memorabile:

         Io tento una vita:
         ognuno si scalza e vacilla
         in ricerca.

         Ancora mi lasci: son solo
         nell’ombra che in sera si spande,
         né valico s’apre al dolce
         sfociare del sangue.
                        (S. QUASIMODO, Curva minore, da Acque e terre, 1920-1929)

Forse meriterebbero soltanto silenzio, versi come questi, rarissimi nella poesia contemporanea. Qui il confine con la mistica è davvero labile. Si ode la grande fatica dell’uomo, identificatosi con tutta l’umanità, nella vacillante ricerca di risposte ultime e appaganti, ovvero di Dio. Un Dio che si percepisce come Qualcuno che ancora una volta si allontana, come nelle “notti” dei grandi mistici di ogni latitudine, lasciando completamente soli nell’ombra del giorno che di sera si fa ancor più cupa, mentre il sangue del proprio dolore, reso dolce da questa attesa colma di preghiera, non riesce ancora a trovare il giusto valico ove sfociare, come ad esprimere l’anelito formidabile di chi non si è ancora arreso a trovare un senso a tante lacrime di sacrificio.
Dopo tanto peregrinare, tra grida, angosce, attese di pianto, ecco però una visione purificata, quella di una nuova vita, annunciata dall’intramontabile Giovanni Pascoli:

         […] Ti vidi, o giorno che su l’infinita
         via delle nebulose ultime e sole
                  appari. M’apparisti, o vita
                  che splendi quando è morto il sole.

         Un alito era, solo, per il miro
         gurge, di luce: un alito disperso
                  da un solo tacito respiro
                  e che velava l’universo:

         come se fosse, là, per un istante,
         immobile sul sonno e su l’oblio
                  di tutti, nella sua raggiante
                  incomprensibilità, Dio!
                        (G. PASCOLI, L’aurora boreale, da Odi e Inni, 1907)

Non ci soffermiamo sui versi, il cui significato appare chiaro, tuttavia fissiamo l’attenzione sulle ultime parole: come fosse là, per un istante, immobile… nella sua raggiante incomprensibilità, Dio. Ci portano sul grande baratro del mattino di Pasqua, quando misteriosamente, in un alito disperso, in un solo tacito respiro, nel quale racchiudiamo il palpito del mondo, riusciamo a cogliere con l’intuizione la raggiante incomprensibilità di Dio! Davvero è l’inizio di una nuova vita di fede…

         Tu verrai e libererai nella luce
         queste finestre sbarrate di luce,
         ed io, polvere, ritornerò nella luce.
         Ti chiamerò: - Chi come Dio?

         E mi farai vedere un fiume
         delle mie canzoni perdute.

         Ora, mi dirai, non devi temere più:
         Israele è il tuo cuore,
         tutte le creature sono risorte.
         Aprono le braccia colme di luce.
                        (ELIO FIORE, The Lord of Souls, da In purissimo azzurro, 1985)



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