venerdì 30 marzo 2012

Conclusione


Al termine di questo percorso, compiuto in compagnia di numerosi poeti e soprattutto delle loro più recondite ricerche ed aspirazioni, che certamente ci hanno arricchiti di un’esperienza umana trasfigurata dalla Luce, vogliamo riportare e commentare la poesia di uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, del quale si stanno finalmente in questi ultimi anni moltiplicando gli studi, e verso il quale invitiamo i lettori a portare parecchia attenzione. Si tratta di Clemente Rebora, il cui itinerario di vita esprime ancor più chiaramente ciò che attraverso i versi ha inteso esprimere e rivelare:

         Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
         nell’arcana sorte
         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!
         Pur da una Madre sola, che è divina,
         alla luce si vien felicemente:
         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.
                        (CLEMENTE REBORA, Poesia e santità, da Poesie (1913-1957))

Prima chiara consapevolezza: il creato non segue una linea cieca o casuale, né un cammino di progressivo deterioramento, bensì un’ascesi in Cristo al Padre. Ora, come spiegare ad occhi poco avvezzi alla contemplazione il senso di un’ascesi che coinvolge il creato intero? Significherebbe ammettere che segue un disegno provvidenziale, che è stato già pensato da un Altro, che non è in nostro dominio, ma che è indissolubilmente legato a noi umani secondo un’arcana sorte. Ciò contrasta molto con una certa mentalità diffusa oggi. Poi

         tutto è doglia del parto:
         quanto morir perché la vita nasca!

Torniamo nuovamente a quel realismo che abbiamo avuto modo di scoprire in altri autori. Lo ribadiamo: per vivere in pienezza, si deve accogliere l’aspetto più tragico della vita stessa, quel lento morire che portiamo addosso e dal quale tentiamo in ogni modo fuggire. Eppure, si tratta di un moto finalizzato ad una vita più grande: tutto è doglia del parto, cioè, quanto morir perché la vita nasca! Non è mai un soffrire vano, mai un’attesa senza approdo: tende l’esistenza ad un compimento per giungere al quale occorre però morire. È una legge ineludibile ed alla quale dobbiamo necessariamente adeguarci, pena una morte prematura e certamente più sofferta… E per morire, non abbiamo altro da fare che stringerci a Cristo, perché solo in Lui ascendiamo al Padre. Soltanto nell’accoglienza di quella forza e di quell’amore che si sprigionano dal suo volontario soffrire per noi, ritroviamo il senso delle cose che appaiono cadere, perire, sparire, come anche la risposta ai dolori più inspiegabili, sordi, solitari. Nella sua obbedienza alla volontà del Padre, occorre unire la nostra, nel coraggio di saperci figli amati da Dio:

         vita che l’amor produce in pianto,
         e, se anela, quaggiù è poesia;
         ma santità soltanto compie il canto.

I poeti ci hanno mostrato come è possibile trasformare il pianto amoroso della vita in anelito poetico, eppure questo non basta, è soltanto una tappa. Ci hanno, in realtà, indicato come il canto della vita si compie pienamente soltanto con e nell’amore del Signore.
Buona Pasqua a tutti!

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