Accogliamo adesso l’invito porto dai versi di un poeta
poco noto, che sembrano ben esprimere quanto il giovedì santo contiene in sé.
Si tratta di Georg Trackl, poeta austriaco morto ventisettenne nel 1914 per
overdose di cocaina, quando gli orrori della Prima Guerra mondiale gli si
rivelarono come l’apice della sua veggente disperazione. Scrive tre quartine,
in apparenza molto tradizionali, in realtà carichi di una straordinaria luce ed
energia. Ecco la prima:
Quando
la neve cade alla finestra
A
lungo suona la campana della sera,
Per
molti la tavola è preparata,
E
la casa è tutta in ordine.
Sembrerebbe un atmosfera crepuscolare, tipica di un animo
che protende l’orecchio al proprio tempo scorgendone tutta la decadenza. E del
crepuscolo, coglie elementi molto essenziali: la neve che cade, una indefinita
finestra, una campana, e poi l’intimità di una casa al cui interno un tavola è
preparata. Colpisce quel “per molti”, come a voler evidenziare un unico destino
che accomuna gli uomini. Inoltre si coglie un’assenza. Per molti è preparata,
ma non si vede nessuno. Riprende:
Più
d’uno nel suo peregrinare
Giunge
alla porta per sentieri oscuri.
Ecco giungere qualcuno. Che strano, però: prima descrive
l’interno di una casa, ora passa all’esterno, da cui giunge “più d’uno”. Da
molti, il numero si stringe a pochi. Non solo: scopriamo un pellegrinaggio che
accomuna questi uomini che giungono alla porta
della casa per sentieri oscuri. La certezza che in un primo
momento dava la tavola preparata e la casa ben ordinata comincia ora a
sgretolarsi. Chi giunge in questa casa è in realtà pellegrino e per di più vi
arriva attraverso sentieri oscuri. Come è possibile tornare nella propria casa
per sentieri oscuri? Ciò induce a pensare che probabilmente non si tratti
neppure più di una semplice casa domestica. Ce ne dà conferma quel giungere alla porta. Il poeta sta sicuramente
ricorrendo a particolari significati simbolici. Seguiamolo in questo suo
intento:
Aureo
fiorisce l’albero della Grazia
Dal
fresco succo della terra.
Eccolo! Un elemento ancestrale, mitologico e, per ebrei e
cristiani, pienamente sacro: l’albero della Grazia, della Vita. Il poeta scorge
un elemento soprannaturale, che sembra proprio vedere all’interno di questa sua
descrizione via via ascendente verso significati sempre più alti. Addirittura
quest’albero reca fiori d’oro in cima, linfa fresca alle radici nascoste nel
buio della terra. In realtà, allora, non è un elemento prettamente spirituale,
ma misteriosamente unito alla dimensione terrena, la più oscura, eppur feconda
nel suo fresco e succoso grembo. Ultima quartina:
Viandante
entra silenzioso:
Dolore
impietrì la soglia.
E qui entriamo nel cuore del mistero! Il mistero della
vita del viandante, giunto per sentieri oscuri alla porta della casa che
sembrerebbe essere il porto definitivo dove armeggiare la barca dell’esistenza.
Ma il tono è molto tragico. Parla di “viandante”: perché non usa l’articolo?
Forse allude all’uomo contemporaneo privo di una precisa identità? Parla di
“dolore”: anche qui, che voglia alludere all’anonimato in cui tanto dolore oggi
rimane imprigionato senza voce?
Quel che è stupefacente è quanto accade: il viandante
entra silenzioso e la soglia diviene pietra a causa del dolore. In questa
esperienza, che sembra farsi interiore al sommo grado, troviamo il silenzio, il
miglior compagno per entrare in una comunicazione autentica con il nostro vero
essere. Essere che conosce il dolore, al punto da trasformare in pietra la
soglia. Com’era prima la soglia se adesso è pietra? E perché si è trasformata?
Leggiamo gli ultimi due versi di questa quartina finale:
Là
risplende in puro chiarore
Sulla
tavola pane e vino.
Le domande aperte in precedenza sembrano finalmente
trovare una risposta, ma non è semplice comprendere i simboli che il poeta offre
ai nostri occhi. Diciamo qui “occhi”, perché la scelta dell’autore è
chiaramente pittorica: descrive fondamentalmente per immagini, oltre che per
suoni. Torniamo ai simboli:
Sulla
tavola pane e vino.
Ma non sono proprio gli elementi dell’Ultima cena del
Signore? E cosa ci fanno qui, in questa misteriosa casa, divenuta via via più
interiore e adesso, tutta d’un tratto, universale? Che sia una chiesa, dato che
si parlava di una soglia impietrita? Eppure prima non era di pietra…e allora?
Questi paradossi sono l’essenza stessa della poesia, che
vuole schiudere più che definire, allargare, più che rispondere. Ed è per
questo che vogliamo soltanto tentare un’interpretazione, sapendo che non è
l’ultima, né la migliore, né la definitiva. E ci serviamo di quella che è stata
la prima stesura della poesia, di un retroscena quindi, che ci aiuterà a fare
chiarezza sull’enigma, nel quale ci ha introdotti magistralmente il poeta:
Quando
la neve cade alla finestra
A
lungo suona la campana della sera,
Per
molti la tavola è preparata,
E
la casa è tutta in ordine.
Più
d’uno nel suo peregrinare
Giunge
alla porta per sentieri oscuri.
La
sua ferita piena di grazie
Lenisce
la dolce forza dell’amore.
Oh,
nuda sofferenza dell’uomo!
Colui
che, muto, ha lottato con gli angeli.
Domato
dal sacro dolore, tende silenziosamente la mano
Verso
il pane e il vino del Signore.
Dopo aver descritto quel “più d’uno” che giungeva alla
porta per sentieri oscuri, ecco ora scoprire dietro il vagabondare una ferita
aperta, in attesa. Si trattava allora di un movimento dell’anima, dello strazio
di chi attende nel profondo una redenzione. Nella sua straordinaria sensibilità
da veggente, il poeta scorge una pienezza di grazie nella stessa ferita, come
avendone già riconosciuto il significato e il valore. Una ferita non più
solitaria, perché lenita dalla dolce forza dell’amore. Proprio l’amore è stato
capace di abbracciare la nuda sofferenza umana; di premiare
l’estenuante lotta contro gli angeli. Muta perché con ogni probabilità solitaria
e notturna, dove solitudine e notte devono intendersi anche come metafore del
tempo che ognuno vive. Dice:
Domato
dal sacro dolore
L’uomo, in perenne lotta contro se stesso, trova riposo
nel sacro dolore, addirittura venendone domato. Il dolore, “sacro” perché forse
condiviso da Dio che solo può renderlo tale, doma l’inquieto cuore dell’uomo,
perché sa come la sua cattiva inclinazione continuamente lo allontanerebbe da
questo porto sospirato. Resta ora da capire la sorgente di questo amore, che è
tale da rendere sacro persino il dolore:
tende
silenziosamente la mano
Verso
il pane e il vino del Signore.
Qui rimane spazio solo per lo stupore, dinanzi a questo
tendersi estremo, quasi disperato, dell’anima, attraverso la sua parte corporea
simboleggiata dalla mano, quindi in unità di anima e corpo,
Verso
il pane e il vino del Signore.
Soltanto adesso diviene comprensibile il perché la soglia impietrì al passaggio del viandante,
anzi, a causa del suo dolore. Quello a cui ci ha fatto assistere il poeta è in
realtà una liturgia, nella quale la vita diventa un tutt’uno con il mistero
celebrato. E allora, quel pane e quel vino del Signore non stanno altro che
sull’altare del sacrificio, un altare di pietra. Nel varcare la soglia di
questo mistero di comunione con Colui che ha voluto assumere la nostra carne,
la nostra sofferenza, non si può restarne estranei: ci si trasforma, bensì, nello
stesso altare che si contempla e adora.
Casa, cuore e chiesa trasfondono adesso nel Corpo e nel Sangue
del Signore,
silenziosamente.
Quel pane e quel vino, che sono il segno di un’integrale
offerta, misteriosamente s’incontrano unificandosi con l’integrale offerta di
dolore del viandante, ovvero di ognuno di noi.
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