Trattare il tema del dolore, della sofferenza umana è cosa
difficile e probabilmente anche pericolosa. Si tratta di un ambito che esige un
sommo rispetto e si corre il rischio di non saper esprimere sentimenti,
pensieri opportuni in circostanze nelle quali sono coinvolte le fibre più intime
della persona. Eppure ci sembra, secondo quanto abbiamo imparato nella
precedente tappa, che la poesia possa preservarci da tali rischi ed anzi
renderci più agevole l’accesso al sacrario dell’intimità sofferta dell’essere
umano. Vogliamo farlo con alcuni versi del premio Nobel per la letteratura, il
modicano Salvatore Quasimodo. Chi ha avuto modo di accostarsi alla sua vita, sa
bene di quanta sofferenza è stata intessuta, soprattutto nella ricerca della
verità che fino all’ultimo stentava a trovare:
[…]
La vita non è sogno.
Vero l’uomo
e il suo pianto geloso
del silenzio.
Dio del silenzio, apri
la solitudine.
(Salvatore Quasimodo, da THÀNATOS
ATHÀNATOS,
in La vita non è sogno, 1946-1948)
La bellezza di questi versi è
difficilmente narrabile. Si annuncia anzitutto la crudezza della vita, la sua
drammatica identità:
la vita non è
sogno
E il fatto che a dirlo sia un
poeta, fa riflettere ancor di più, specialmente pensando che sono proprio essi
i primi accusati di essere degli accaniti sognatori! Ed invece:
vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio
Il contrasto con la precedente
espressione è fortissimo: non solo la vita non è sogno, ma l’uomo è vero, ha in
sé una radice che lo rende autentico, reale, assoluto. Ma l’uomo non è solo, è
in compagnia del suo pianto. E forse è questo che lo rende vero… Difatti, è un
pianto animato da una particolare gelosia, ovvero da un desiderio di silenzio.
Verità, dolore, solitudine, in questi versi sono misteriosamente e
armonicamente intrecciati. Non ci richiama forse l’evento drammatico del Cristo
in croce?
Inchiodato al suo pianto, il cuore
si apre ad una inaudita preghiera:
Dio del
silenzio, apri la solitudine
Impressiona in questi esili versi
la struggente ricerca di Dio all’interno dell’anima piagata. Al fondo di quella
solitudine, il poeta scorge come la presenza di un Dio che attende di essere
invocato, pregato, supplicato, perché l’uomo sembra incapace di reggere la
sofferenza e la conseguente solitudine.
Questa poesia crediamo ridoni una
speranza profonda a quanti nella ricerca di senso rode il fuoco dell’amore che
conficca i dolci chiodi dentro la propria carne sulla croce.
In un’altra poesia, ci imbattiamo
in alcuni versi a tratti enigmatici. Eccoli:
io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la
carne.
(Salvatore Quasimodo, IO
MI CRESCO UN MALE,
in Ed è subito sera, 1920-1929)
In una possibile interpretazione, ci sembra ravvisare,
sempre rimanendo nel tema della cruda realtà della vita, il rapporto che l’uomo
tesse con il male:
io mi cresco
un male
da vivo
Il poeta, riconoscendo lo scorrere della vita in sé, non
può non ammettere che essa comprende anche il male, ma non un male subito,
bensì un male che in prima persona “si cresce”, quasi a dire che si fa complice
di questo male. Facendo attenzione anche all’articolo utilizzato, nella sua
indeterminazione lascia presagire la difficoltà di identificare il male: un male. Resta fermo il fatto che l’uomo
alimenta questo male indistinto, nel tentativo di farlo proprio. Lo stesso
uomo, poi, paradossalmente sceglie di cambiare rotta, forse perché sa già per
istinto che in questa complicità non ci si trova, si lega a forze oscure e a
tragici destini. Ed ecco
che a mutare
ne soffre anche la carne
Questi versi dobbiamo ammettere essere stupefacenti. Non
poteva esprimere meglio il poeta il senso profondo della penitenza, dando prova
di una grande maturità interiore. La penitenza non è qualcosa di imposto
dall’esterno, ma un nascere quasi spontaneo dal cuore di una lotta contro il
male nella quale ci si sente misteriosamente coinvolti. Il poeta vuole mutare
la sorte del male dentro di sé con cui scende a compromessi, ma scopre che tale
tentativo ha un prezzo alto da pagare:
ne soffre
anche la carne
C’è un dolore anche fisico da sopportare per poter espiare
la colpa, la compromissione con il male. Volersi liberare da un male che con
consapevolezza si riconosce di avere dentro, significa affrontare una grande
sofferenza, dovuta innanzitutto all’andare contro la natura umana ribelle ai
dettami dello spirito che la abita.
In povertà di carne,
come sono
Eccomi, Padre: polvere
di strada
che il vento leva appena
in suo perdono.
Ma se scarnire non
sapevo un tempo
la voce primitiva ancora
rozza,
avidamente allargo la
mia mano:
dammi dolore cibo
cotidiano.
(Salvatore
Quasimodo, Avidamente allargo la
mia mano,
in Ed
è subito sera, 1920-1929)
Il coraggio del poeta è tale da non avere paura di
allargare avidamente la mano, in richiesta di ciò che lo possa realmente
colmare e realizzare. Parla di una certa avidità, perché in realtà la mano mira
a toccare, a possedere cose materiali. Ed invece, spiazzando ogni
immaginazione, il poeta, con decisione e asciuttezza domanda:
dammi dolore
cibo cotidiano
Ripensando a quella preghiera che ogni cristiano ripete più
volte al giorno, il Padre Nostro, scopriamo come la poesia ci aiuti a
interpretare in maniera più “saporosa” quella richiesta del pane quotidiano che
innalziamo a Dio. Ora quel pane diventa il dolore, ovvero una possibilità di
riscatto, di perdono, di espiazione. Il poeta ci illumina, perché ha capito,
forse, che senza croce non c’è alcuna salvezza, salvezza che poi non è altro
che quella pienezza di amore e di vita che ogni essere umano porta dentro di
sé. E allora non resta, privi ormai di forze e in povertà di carne, che abbandonarci nelle mani dell’Altissimo:
Eccomi,
Padre
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