venerdì 30 marzo 2012

IN PASSIONE DOMINI - Venerdì Santo


Trattare il tema del dolore, della sofferenza umana è cosa difficile e probabilmente anche pericolosa. Si tratta di un ambito che esige un sommo rispetto e si corre il rischio di non saper esprimere sentimenti, pensieri opportuni in circostanze nelle quali sono coinvolte le fibre più intime della persona. Eppure ci sembra, secondo quanto abbiamo imparato nella precedente tappa, che la poesia possa preservarci da tali rischi ed anzi renderci più agevole l’accesso al sacrario dell’intimità sofferta dell’essere umano. Vogliamo farlo con alcuni versi del premio Nobel per la letteratura, il modicano Salvatore Quasimodo. Chi ha avuto modo di accostarsi alla sua vita, sa bene di quanta sofferenza è stata intessuta, soprattutto nella ricerca della verità che fino all’ultimo stentava a trovare:

[…]
La vita non è sogno. Vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.
      (Salvatore Quasimodo, da THÀNATOS ATHÀNATOS,
      in La vita non è sogno, 1946-1948)

La bellezza di questi versi è difficilmente narrabile. Si annuncia anzitutto la crudezza della vita, la sua drammatica identità:
         la vita non è sogno
E il fatto che a dirlo sia un poeta, fa riflettere ancor di più, specialmente pensando che sono proprio essi i primi accusati di essere degli accaniti sognatori! Ed invece:
         vero l’uomo
         e il suo pianto geloso del silenzio
Il contrasto con la precedente espressione è fortissimo: non solo la vita non è sogno, ma l’uomo è vero, ha in sé una radice che lo rende autentico, reale, assoluto. Ma l’uomo non è solo, è in compagnia del suo pianto. E forse è questo che lo rende vero… Difatti, è un pianto animato da una particolare gelosia, ovvero da un desiderio di silenzio. Verità, dolore, solitudine, in questi versi sono misteriosamente e armonicamente intrecciati. Non ci richiama forse l’evento drammatico del Cristo in croce?
Inchiodato al suo pianto, il cuore si apre ad una inaudita preghiera:
         Dio del silenzio, apri la solitudine
Impressiona in questi esili versi la struggente ricerca di Dio all’interno dell’anima piagata. Al fondo di quella solitudine, il poeta scorge come la presenza di un Dio che attende di essere invocato, pregato, supplicato, perché l’uomo sembra incapace di reggere la sofferenza e la conseguente solitudine.
Questa poesia crediamo ridoni una speranza profonda a quanti nella ricerca di senso rode il fuoco dell’amore che conficca i dolci chiodi dentro la propria carne sulla croce.
In un’altra poesia, ci imbattiamo in alcuni versi a tratti enigmatici. Eccoli:

io mi cresco un male
da vivo che a mutare
ne soffre anche la carne.
      (Salvatore Quasimodo, IO MI CRESCO UN MALE,
      in Ed è subito sera, 1920-1929)

In una possibile interpretazione, ci sembra ravvisare, sempre rimanendo nel tema della cruda realtà della vita, il rapporto che l’uomo tesse con il male:
         io mi cresco un male
         da vivo
Il poeta, riconoscendo lo scorrere della vita in sé, non può non ammettere che essa comprende anche il male, ma non un male subito, bensì un male che in prima persona “si cresce”, quasi a dire che si fa complice di questo male. Facendo attenzione anche all’articolo utilizzato, nella sua indeterminazione lascia presagire la difficoltà di identificare il male: un male. Resta fermo il fatto che l’uomo alimenta questo male indistinto, nel tentativo di farlo proprio. Lo stesso uomo, poi, paradossalmente sceglie di cambiare rotta, forse perché sa già per istinto che in questa complicità non ci si trova, si lega a forze oscure e a tragici destini. Ed ecco
         che a mutare
         ne soffre anche la carne
Questi versi dobbiamo ammettere essere stupefacenti. Non poteva esprimere meglio il poeta il senso profondo della penitenza, dando prova di una grande maturità interiore. La penitenza non è qualcosa di imposto dall’esterno, ma un nascere quasi spontaneo dal cuore di una lotta contro il male nella quale ci si sente misteriosamente coinvolti. Il poeta vuole mutare la sorte del male dentro di sé con cui scende a compromessi, ma scopre che tale tentativo ha un prezzo alto da pagare:
         ne soffre anche la carne
C’è un dolore anche fisico da sopportare per poter espiare la colpa, la compromissione con il male. Volersi liberare da un male che con consapevolezza si riconosce di avere dentro, significa affrontare una grande sofferenza, dovuta innanzitutto all’andare contro la natura umana ribelle ai dettami dello spirito che la abita.

In povertà di carne, come sono
Eccomi, Padre: polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.

Ma se scarnire non sapevo un tempo
la voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.
      (Salvatore Quasimodo, Avidamente allargo la mia mano,
      in Ed è subito sera, 1920-1929)

Il coraggio del poeta è tale da non avere paura di allargare avidamente la mano, in richiesta di ciò che lo possa realmente colmare e realizzare. Parla di una certa avidità, perché in realtà la mano mira a toccare, a possedere cose materiali. Ed invece, spiazzando ogni immaginazione, il poeta, con decisione e asciuttezza domanda:
         dammi dolore cibo cotidiano
Ripensando a quella preghiera che ogni cristiano ripete più volte al giorno, il Padre Nostro, scopriamo come la poesia ci aiuti a interpretare in maniera più “saporosa” quella richiesta del pane quotidiano che innalziamo a Dio. Ora quel pane diventa il dolore, ovvero una possibilità di riscatto, di perdono, di espiazione. Il poeta ci illumina, perché ha capito, forse, che senza croce non c’è alcuna salvezza, salvezza che poi non è altro che quella pienezza di amore e di vita che ogni essere umano porta dentro di sé. E allora non resta, privi ormai di forze e in povertà di carne, che abbandonarci nelle mani dell’Altissimo:

         Eccomi, Padre

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